Oggi escono Shame di Steve McQueen e La talpa di Tomas Alfredson, entrambi presentati alla scorsa Mostra di Venezia. Comincio con il primo, che trovo un film profondamente inutile, ma proprio per questo perfettamente al passo coi tempi. Certo, McQueen l'altra volta ha fatto un film riuscito, Hunger; certo, c'è Fassbender che lo mette in mostra e c'è pure la Mulligan che canta New York New York (per molti un momento di grande cinema, per me uno strazio canoro degno di Amici). Certo, Shame è un prodotto che fa un sacco figo, che fa sentire dei duri perché parla di sesso come dannazione, perché è girato a New York, e in fondo siamo tutti un po' newyorchesi, e perché è interpretato da attori cool, ma con una perenne espressione malinconica che li fa somigliare a noi mortali... Soprattutto, Shame è un film vecchio e inerme: ma, ripeto, è per questo un film significativo. Ecco perché quando mi hanno chiesto di scriverne per la rivista Panoramique, ho cercato di concentrarmi sui suoi aspetti interessanti e non su quelli che mi fanno incazzare. Ecco cosa ne è venuto fuori (se vi va).
Nel precedente film di Steve McQueen, chiamato Hunger e ispirato alla vicenda di Bobby Sands, il detenuto dell’IRA che nel 1981 intraprese fino alla morte uno sciopero del cibo e dell’acqua, la fame era un simbolo di estremo rigore esistenziale. La richiesta di un riconoscimento politico per i detenuti politici irlandesi diventava un’invocazione di liberazione spirituale, con l’uomo pronto a sostituirsi all’icona sofferente di Gesù Cristo. In Shame quella stessa fame diventa un appetito animale insaziabile; ed è il sesso, non più la moralità delle scelte individuali, a farsi terreno di confronto tra l’uomo e la realtà.
Il protagonista del film, Brandon Sullivan, è un animale triste, un predatore sessuale costretto a nascondersi nella società non per ipocrisia, ma per istinto di sopravvivenza. Ogni aspetto della sua figura è simbolicamente connesso con la superficie scintillante della contemporaneità e delle sue icone: l’appartamento a Manhattan, il lavoro nel mondo della finanza, il look da duro impenetrabile. Brandon è egli stesso un’icona, una figura piatta e priva di definizione psicologica: di fronte al sentimento, alla richiesta di affetto della sorella o alla possibilità di un amore, la fierezza della sua solitudine si sfalda, non regge un dialogo condotto con il cuore e non con il corpo.
Come gli eroi soprattutto letterari a cui rimanda, tra il Patrick Bateman di American Psycho (1991), che vive in un continuo stordimento da alcol, sesso, droga e denaro, o il John Self di Money (1984) di Amis, che attraversa in trance una New York definita dallo scambio economico e dal sesso compulsivo, anche Brandon Sullivan è, come direbbe lo stesso Amis, schiavo del XX secolo e delle sue ossessioni: in questo Shame dimostra di essere un film datato, o forse – il che è molto peggio per noi spettatori – di interpretare le pulsioni mortifere del nostro tempo come residui di una civiltà postmoderna che dagli anni ’80 in poi non ha saputo ridestarsi.
Ma se l’attuale crisi economica è figlia della deregulation di era reaganiana, allora il film di McQueen è qualcosa in più dell’ennesima parabola distruttiva di un eroe solitario e peccatore. È un film sulla fine della storia, sull’evoluzione verso il nulla dell’umanità emersa dal trionfo capitalista, è un’opera a suo modo epocale che interpreta in chiave disumanizzata la caduta dell’individuo.
La scena finale, con Brandon che vaga disperato sul molo di Chelsea, ricorda l’arrivo sulla terra degli angeli di Wenders: un corpo fragile che si accascia sull’asfalto. Se non che questa volta il personaggio non va incontro a un nuovo inizio, ma rimane bloccato in un cul de sac di pulsioni e paure. La figura dell’uomo che cade dalle Torri gemelle l’11 settembre 2001, spaventoso monito alla società occidentale già bloccata nella sua iconicità dal De Lillo di Falling Man, viene ora aggiornata da un uomo ormai precipitato e per sua sfortuna sopravvissuto.
Shame è un film moralista, non c’è dubbio. La vergogna del titolo è tanto individuale quanto universale. E se lascia più di un dubbio il fatto che la discesa del protagonista tocchi il fondo con un rapporto omosessuale, resta il fatto che il suo cammino spirituale, per quanto elementare, si stagli come l’emblema di un mondo bloccato, capace di vivere solo nella paradossale condizione di una deriva immobile (come la stessa Manhattan, a pensarci bene: isola che galleggia immobile e sempre uguale a se stessa, simbolo di una decadenza adattabile a ogni generazione).
L’anima ferita di Brandon riverbera sull’umanità intera, la sua fame impossibile da saziare ne interpreta le pulsioni onaniste e rabbiose, colmando con la mortificazione del corpo il vuoto lasciato dalla sparizione di qualsiasi orizzonte emotivo. Se l’unico sentimento del film emerge durante una versione stiracchiata e sofferta di New York New York, ennesima icona popolare rivista, rivitalizzata e mortificata, il destino che attende il personaggio, e la società di cui è immagine, è quello della riproduzione continua, una coazione a variare e al tempo stesso a ripetere che ci condanna a un piacere fine a se stesso. La vergogna, dunque, è per la prigione espressiva a cui ci siamo volutamente condannati: se l’eroe di Hunger sfuggiva alla vita per sfuggire alle catene, l’uomo di oggi vive da recluso in un mondo che crede libero.
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