Ieri è morto Cy Twombly, che io credevo deceduto da tempo (in reltà non mi ero mai chiesto se fosse ancora vivo o meno: lo davo semplicemente per morto perché l'avevo studiato su un libro) e che sapevo essere trasferito a Roma negli anni '50 e da lì mai più mosso. Twombly è stato uno dei grandi artisti americani emersi negli anni dell'espressionismo astratto, del nouveau realisme e della pop art e per quanto mi riguarda è stato anche il pittore che ho più faticato a capire e sovente a difendere dall'accusa per cui anche un bambino saprebbe fare quella roba lì. In effetti, nel suo caso era proprio difficile trovare qualcosa di concreto da opporre all'impotenza dello sguardo smarrito e privo di appigli. Perché i suoi quadri era davvero come scritte di bambini, muri bianchi scrostati e graffiati come lavagne di scuola, in un certo senso graffiti che riportavano l'arte a una condizione primitiva. Personalmente, però, per quanto perplesso di fronte al loro vuoto esemplare, ho sempre pensato che i segni selvaggi di Twombly non fossero regressioni, linguaggio ancora incerto, ma piuttosto resti, rimasugli di storie, ricordi e racconti. Segni che testimoniavano l'operato del tempo sulla psiche, che sovente si ricollegavano a storie mitologiche e leggende popolari per testimoniare la fragilità del sapere e dunque dell'arte.