Purtroppo questo blog vive solo ogni tanto: quando ho tempo di scrivere, quando non ho troppo lavoro, quando sono ai festival. All'inizio era diverso, mi ero imposto di scrivere ogni giorno, rispettavo la consegna: oggi invece non è più così, oggi se chiedi il servizio in camera è già tanto se ti arriva di giovedì... Comunque, Casinò a parte, oggi sono a Venezia, per cui ho tempo di scrivere, anche se poi alla fine non scrivo esattamente per il blog, ma per il sito di Cineforum (se vedo film che mi piacciono), e qui sopra metto quello che scrivo dall'altra parte, e se mi va anche altre robe.
Come primo pezzo metto quello che ho scritto sul nuovo, spledente sito di Cineforum a proposito di Die andere Heimat di Edgar Reitz, quinta puntata della saga, lunga tre ore e cinquanta e a parte le sbandate colorate in uno splendido mare di bianco e nero, un film bellissimo. L'ho visto dopo Gravity di Cuaron, che come film d'apertura ci sta benissimo, è visivamente strabiliante e pomposo da un punto di vista estetico e spirituale, un po' cattolico e un po' darwinista - un colpo di qui e uno di là - come si addice ai tempi. Poi c'è Sandra Bullock che quando si toglie la tuta spaziale e resta in canotta e shorts fa parecchio bene agli occhi e al cuore, è sexy quanto Sigourney Weaver nel finale di Alien (e francamente non pensavo di trovare qualcosa di altrettanto eccitante, al cinema, di Sigourney Weaver nel finale di Alien); e ancora è un film bello perché fa piacere capire dopo quasi dieci anni il senso del titolo di un vecchio film di Hong Sangsoo, La donna è il futuro dell'uomo, che all'epoca, era il 2004 credo, non sapevo come collocare e ora dopo Gravity sì, ora so che dopo lo spazio profondo e il bimbo di 2001 si può ancora rinascere e rimettersi in piedi, con una bella manciata di fango in mano. Solo che Adamo è donna, e dunque è Eva, e se per caso viene cocciuta come le donne al volonte di Via Castella Bandiera di Emma Dante sono cazzi (però anche segno di una forza così dirompente che dalla sindrome da lemming dell'umanità - vedi l'ultima, infinita inquadratura del film - non può che venir fuori qualcosa di buono).
E sempre a proposito di fango, comunque, ieri sera ho visto per la prima volta (mea culpa) Il salario della paura, qui presentato in versione restaurata per celebrare il Leone alla carriera a Friedkin, e a vedere tutto quel pazzesco cinema di guerriglia, con le riprese dal vero di autentici bestioni a quattro ruote che attraversano ponti sospesi nella giungla, sotto ettolitri di acqua scrosciante, di fronte alla fatica autentica di attori con la faccia da canaglie, il naso rotto, i chili di troppo, i baffi da killer e i giubbotti in pelle sgualciti, e a ripensare all'opposto alla pulizia iperrealista di Gravity, di certo bellissima, calma e noiosa come lo spazio oscuro e le sue vedute dall'alto della Terra, ho capito che la freddezza vitrea del digitale sarà anche lo sguardo inevitabile dei nostri tempi, e dunque va bene reggerlo, quello sguardo, e farsene una ragione, ma la grana sporca della pellicola, e il cinema poroso che sapeva generare, visibile ancora oggi nonostante la cosmesi del restauro, era tutta un'altra cosa, una specie di lingua ancestrale del cinema che non smetteremo mai di parlare (e forse di rimpiangere). Per cui alla fine, in questa freccia del tempo che - memori del nuovo Heimat - procede, curva e ricomincia tornando indietro - va bene anche Why Don't You Play in Hell di Sion Sono che ha idee sul rapporto tra passione e sangue che neanche avesse lui trent'anni e fosse lui un Fuck Bombers, con i cameram che fanno le carrellate col mitra e l'operatore con la camera a mano che si fa strada spianando il fucile automatico: il film è un simpatico cazzeggio sul cinema che fu, su tutta la pittura rossa che puoi ancora tirare addosso al pubblico, prima che si ripulisca nella stessa acqua da cui emerge Sandra Bullock, plastica e gommosa come la donna del futuro.
PS: ho finito per non parlare di Heimat. Lo metto nel post dopo.
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