sabato 18 maggio 2013

Le passé


La cosa a cui la critica è più abituata è la nostalgia per il cinema classico, la precisione della scrittura e della messinscena. Siamo sempre lì a parlare, giustamente, di quanto quel cinema fosse preciso e insieme profondo, impareggiabile nel saper racchiudere il mondo intero in uno schermo. Lo evochiamo così tanto quel cinema, che la sua mancanza è diventata una posa, un marcia in folle del pensiero. E quando poi arriva un film come Le passé, che è identico a Una separazione eppure altrettanto potente, ci metti un po' ad accorgerti che quello che di Farhadi - ora più che mai un regista solido e dal futuro certo, uno coi controcoglioni per farla breve - è lo stesso procedimento del cinema classico, solo non ricalcato su Hawks e sulla linearità del suo cinema, ma adeguato al nostro tempo, alla circolarità caotica della realtà che ogni film contemporaneo è chiamato a rappresentare. Farhadi mette la forma al servizio della parola, non fa un cinema teatrale, ma trasforma la parola in un elemento narrativo, una presenza concreta che entra nella scena per spezzarla. E il suo film, come quello precedente costruito su una verità che viene a galla poco alla volta, coinvolgendo ogni personaggio e allargando a ogni passaggio la struttura del racconto, come un albero genealogico senza origine e senza fine, il suo film, dicevo, si crea passo dopo passo come un puzzle. Una coppia divorzia, lui è tornato apposta dall'Iran, lei vive con un altro, che però una moglie in coma e non va d'accordo con la figlia della compagna, un'adolescente convinta di aver un tentato suicidio sulla coscienza... Un melodramma come si deve, insomma, ma non espanso alla Minnelli, ma concentrato, compresso, soffocato. Eppure destinato a esplodere. Il puzzle che Farhadi impiega tempo a costruire (con una scrittura magistrale, forse sin troppo calibrata) vorrebbe ricomporre la realtà - i legami fra le persone, il loro passato, le loro supposizioni - ma arriva così vicino al cuore delle cose da sfiorare l'entropia e dissolversi. Campi e controcampi, piani medi e totali fanno a pezzi la scena, come nel cinema classico, nella speranza di ricomporla. Ma nel 2013 lo sappiamo da sempre che l'unità è perduta, che l'insieme non regge, non ha mai retto anzi, e che il frammento è l'unità di misura di tutto. Per questo, Le passée, nonostante un tono dimesso e disperato, si chiude nel nome della speranza. La speranza di un piano sequenza finale che finalmente proibisce il montaggio e lascia quello che c'è da raccontare resta in sospeso. Se qualcosa accadrà è giusto che il cinema non sia lì a guardarlo e a distruggerlo.

1 commento:

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