mercoledì 13 febbraio 2013

Berlinale 63 - La sorpresa (e il talento puro)

La cosa bella di venire a un festival è che a un certo punto uno smette di sapere cosa va a vedere e, siccome ha pagato per un pass, entra ovunque lo fanno entrare. Capita che magari incontri il film che stavi aspettando e che ti salva buona parte del tempo passato qui. È successo due sera fa con il tedesco-greco Echolot del per me sconosciuto Athanasios Karanikolas, un film che difficilmente si potrà vedere al di fuori di qui - o magari in un altro festival - ma di cui vale la pena scrivere. (Lo so che il problema dei festival è l’autoreferenzialità, le seghe mentali e i pompini a vicenda tra i critici che vivono nell'iperuranio: ma cosa ci posso fare se i film belli se li vedono in trenta, e magari nemmeno piacciono a tutti quei trenta, e poi finiscono nel dimenticatoio?). Echolot, nonostante la sua natura invisibile, è la cosa più potente e folgorante vista a Berlino. Una vera sorpresa, per quanto stilisticamente ricordi un mucchio di cose belle e importanti, datate quanto si vuole ma sempre illuminanti: il cinema sperimentale anni ’60, con i personaggi colti in pose plastiche da avanguardia, il cinema francese dopo la nouvelle vague, disperato, suicida e malinconico, il miglior Assayas, quello delle feste di gruppo, dell’amore giovane, dei capelli spettinati e dei giacconi lunghi, della rabbia giovane di chi al mondo non ci sa stare e ricorda chi al mondo ha deciso di rinunciare. Lungo poco piu di un'ora, rapido e diretto, Echolot è fatto dell’accumulo di volti e corpi di un gruppo di amici (tutti hypster fighetti, insopportabili ma anche puramente cinematografici, tanto sono astratti e insieme plastici) che si ritrovano per commemorare un loro compagno suicida. Camminano nei campi in pieno inverno, entrano in una casa di campagna, si installano per qualche giorno, bevono, suonano, cantano, fanno sesso, vivono come se il tempo non esistesse, si sfiorano la pelle, si toccano, provano a comunicare in modo fisico il dolore di una scomparsa mai accettata, capaci come sono di sballarsi ma impotenti di fronte alla propria inadeguatezza. E il cinema è lì con loro, cupo e contrastato, vitale e colorato. Forse tutto già detto e fatto, ma oltre le sensazioni immediate da cinefili, in Echolot ci sono un senso dell’inquadratura e dello spazio fisico da occupare, c’è una presenza così concreta di corpi e sentimenti compressi, c’è una capacità tale di cogliere l’estasi dell’incontro tra la macchina da presa e il reale (ad esempio in una lunga seduta musicale in cui un tizio ubriaco canta a squarciagola una canzone rock assurda ma bellissima, carica di quella disperazione che solo il rock rende esaltante), c’è insomma così tanto da farti esclamare sticazzi!

Questa, forse, è la voce di un autore vero, di un talento su cui sarebbe bello scommettere parecchio (Athanasios Karanikolas è un documentarista alla sua prima prova nella finzione), sperando di non doversi ricredere alla prima occasione.

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