giovedì 14 febbraio 2013

Berlinale 63 - Due americani un po' così

Oggi non mi viene niente da dire sui film che ho visto qui a Berlino nei giorni passati e anche solo fino a qualche minuto fa. Potrei scrivere di Side Effects di Soderbergh, che è un buon film (e quanto è bella Rooney Mara?) e che soprattutto fa del suo regista uno dei più bravi in circolazione a usare il digitale o quanto meno a porsi delle questioni rispetto all'uso ormai inevitabile che se ne fa. L'immagine di Soderbergh, almeno a partire da Contagion, sta diventando sempre più lucida, plastica, senza profondità, e la sua una voce così priva di inclinazione, così senza stile da celare in realtà, è facile arrivarci, una ricerca stilistica profonda e oggettiva. Poi i suoi film, Side Effects compreso, si perdono o non riescono mai a conquistare fino in fondo (qui, dopo un'inizio da psicodramma si sfocia nel thriller a incastro, e personalmente quando capisco che i pezzi stanno andando al loro posto, io comincio ad annoiami), ma la buona impressione generale è che il loro regista stia portando avanti un gioco teorico sull'identità del cinema nell'era digitale (il cinema girato e proiettato in digitale), nascosto dietro il genere. Niente male, in ogni caso. In tema di Stati Uniti potrei parlare di Prince Avalanche, con cui David Gordon Green torna a essere un regista degno di questo nome, per quanto ormai il suo vecchio stile sospeso e abbandonato all'estasi dello spazio americano sia diventato la lingua principale dell'indie e dunque debba per forza trovarsi un'altra strada. Qui, in un film interamente girato su una strada (remake dell'islandese Either Way, che nel 2011 vinse il TFF), la carriera cinematografica del suo regista – che dieci anni fa era il più bravo di tutti gli indie e poi si è incredibilmente sputtanato con commediacce per teenager – ha una perfetta e chissà quanto voluta esemplificazione, con due operai che dipingono le strisce di mezzeria di una strada di montagna e tra boschi incendiati e case diroccate finiscono per litigare, bere, fare a botte, rincorrersi, confidarsi, lasciarsi al proprio destino e dunque imparare qualcosa delle rispettive vite. In effetti c'è molta empatia tra i due personaggi, il regista e lo spettatore, e il film ne guadagna in autenticità e dolcezza. Certo, Prince Avalanche resta una robetta, con i ralenti nei momenti di massima disperazione dei personaggi e la musica post-rock che prova a creare atmosfere abbandonate e magiche: per l'appunto, uno stile non così di primo pelo. Ma il livello della scrittura di Gordon Green, anche sceneggiatore del suo film, è un buon punto di ripartenza per ridare forza al suo lavoro, dopo che la macchina che spara vernice sull'asfalto ha smesso di procedere diritta e ha macchiato tutto di giallo a zig zag. Sembra, ovviamente, se di questa roba qua ce ne importi ancora qualcosa.

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