venerdì 30 settembre 2011

Prima Cronenberg, poi Refn

Oggi escono due film importanti: A Dangerous Method e Drive. Di entrambi ho scritto dai festival in cui sono stati presentati, Venezia e Cannes, e cominciando da Cronenberg rimetto qui sotto i pezzi. Sul film di Refn, che molto prevedibilmente sta già registrando l'entusiasmo della critica con il suo mix di vintage modaiolo e amore sacrosanto per il noir, ho ancora qualche perplessità, ma se riesco lo vado a rivedere e poi ne riscrivo. Per il momento, ecco A Dangerous Method (da Filmidee).

L'unicità del mito e l'ordine della cultura
Prima il vuoto e poi la paura, come a riflettere su ciò che si è sperimentato in anni di ossessioni, mutazioni, perdizioni. A Dangerous Method è un viaggio a ritroso nei temi del cinema di Cronenberg – il sesso, la furia del desiderio, il rinnovamento della mente attraverso la violazione del corpo – per rendere omaggio a chi ha aperto la porta della psiche e ne ha sperimentato, studiato, patito gli abissi senza fondo. Senza rappresentazioni esteriori delle pulsioni selvagge, ma con un approccio tutto di cervello (e quindi di cuore) agli studi e alla vita di Carl Jung, Sabina Spielrein e Sigmund Freud.

Il film è secco, raggelato, imbrigliato nei costumi della confezione d’autore, ma reso incandescente da una forma che trattiene le pulsioni incontrollabili sfogate dalla Storia (c’è una guerra in arrivo e Jung la sogna come un’onda gigantesca che dal Mare del Nord invade le Alpi). Lo scontro che divide Jung e Freud, e che Sabina sembra risolvere nel suo personaggio tormentato, è quello che informa non solo il cinema di Cronenberg, ma l’intera cultura del ’900. Quello tra mito e cultura. Tra il delirio sciamanico della parola di Dio e il controllo razionale della narrazione romanzesca. Tra la tentazione (di Jung) della discesa alle radici del comportamento umano, fino all’essenza che porta alla liberazione, e la saldezza culturale di Freud, che discerne la psiche e non prova a ridefinirla atteggiandosi a Dio.

Entrambi, Jung e Freud, sono agenti della distruzione (anche loro – soprattutto loro – dei della carneficina). Di fronte allo skyline di New York, Freud non esita e dice: “Lo sanno queste persone che stiamo portando loro la peste?”. Ed è la scena chiave del film, poiché da lì, dall’arrivo a inizio ’900 delle sue teorie negli Stati Uniti, nasce il legame virtuoso tra psicanalisi, arte ed ebraismo (ed è ancora lui a dirlo: “Siamo ebrei, lo saremo per sempre”) alla base della cultura americana. Da lì, dal distacco e dalla tentazione di fronte alle profondità della psiche, sono nate la fragile eppure seducente psicologia hollywoodiana, così come – in maniera più complessa – l’ironia e la frammentarietà del romanzo contemporaneo, quello portato alle estreme vette dal più grande di tutti, l’ebreo Saul Bellow, il quale, di fronte alle potenzialità di un’arte sciamanica in quanto rivelatrice dell’animo umano, opponeva la matericità del romanzo occidentale.

Ed è a un romanzo occidentale, costruito, composito, elegante eppure brulicante, che Cronenberg si è ispirato per A Dangerous Method, tentato dalla forma irripetibile del mito ma frenato dall’ordine necessario della cultura. La sua è una conoscenza insicura e parziale: ma l’unica che la società occidentale abbia sviluppato per affrontare gli abissi del vuoto. Cronenberg, che per anni quel vuoto l’ha solcato, ha paura di ciò che ha visto. E ora sembra credere che il suo sia stato un metodo di fare cinema straordinario, ma troppo pericoloso.

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