Ieri è uscito l'ultimo film di Almodóvar, La pelle che abito, presentato in concorso allo scorso festival di Cannes. Siccome nel frattempo non ho cambiato idea sul suo conto, continuando a considerarlo sbagliato e moscio, ma pure affascinante e pienamente almodovariano, riprendo quasi interamente quello che ho scritto qualche mese fa.
La pelle che abito, che è un film un po’ bloccato, un giallo senza forza con una trama come al solito avviluppata su stessa, con le scritte SEI ANNI FA, DUE MESI DOPO, RITORNO AL PRESENTE belle grosse e contornate di bianco, è nonostante tutto un lavoro in cui Almodóvar ha provato ad andare a fondo delle sue ossessioni sul corpo e sulla sessualità in quanto possesso dell'altro. Come sempre succede in un cinema dove ogni personaggio non è mai ciò che crede di essere e infinte madri di infiniti figli vivono relazioni di inconsapevole prossimità, si tratta di una storia di appropriazione dell’identità altrui, di manipolazione e di desideri egotici. Questa volta, però, letteralmente tagliata sulla pelle dei protagonisti, guidata da un chirurgo folle e visionario che non a caso è un personaggio superficiale, il cui dolore viene solo mostrato e mai approfondito, in quanto capace solamente di vivere attraverso gli altri. Meglio ancora, attraverso il corpo degli altri, da guardare, vegliare, ricostruire, sovrapporre. L’ossessione necrofila di tutto il cinema di Almodóvar, che in Parla con me toccava vette sublimi, qui si contamina con la tentazione della mutazione corporea, della possessione fisica come desiderio solipsistico e soprattutto dimostra quanto per il regista spagnolo il cinema sia in fondo una battaglia rivolta contro se stessi, contro il potere di costruire personaggi, di giocare con la loro psiche e il loro corpo. Almodóvar però – e purtroppo – non è Cronenberg e quando il suo film potrebbe sfociare nell’orrore, naturalmente vira verso il melodramma familiare, con i soliti incroci di sangue e vendette, ma meno convinzione del solito, meno estro nello stile e un po’ di impaccio nelle scene d’azione e in quelle venate d’ironia (terribile la festa nel giardino con le coppie che fanno sesso manco fossero nel Tinto Brass più sbracato). Ne viene fuori un film sbagliato ma proprio per questo affascinante; una pagina così colma di notazioni, fobie, derive autoriali da diventare uno spazio bianco su cui magari ricominciare a scrivere.
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