lunedì 23 maggio 2011

Ripetere sulla differenza

Sembra che il verdetto di Cannes, che ieri sera ha premiato Malick, i Dardenne, Nuri Beige Ceylan, Refn e l'attrice-regista Maiwenn, abbia scatenato, tra commenti su Facebook e interventi più ragionati, una polemica tra i sostenitori del cinema d'autore e gli amanti del cinema commerciale, specializzati nella distruzione dei grandi maestri. Roba da giornali, o da editoriali come quello linkato di Roy Menarini (condivisibile, certo, ma pure scontato). Perché in fondo a Cannes hanno vinto sì autori nel vecchio senso della parola - cioè gente che fa cinema ragionato, complesso, in una parola (nel bene e nel male) artistico - ma pure un cinefilo come Refn, che ha la passione per il cinema di genere e usa la violenza per interrogare l'immaginario cinematografico contemporaneo. E sempre a Cannes, chi ha detestato The Tree of Life ha pure criticato Drive (così come può averli amati entrambi), senza per questo pensare che Malick sia un babucco da mandare in pensione o Refn un furbone che finge di non sapere quello che fa. In un certo senso potrebbe essere vero per entrambi: Malick è un regista al capolinea, avviluppato sulle sue ossessioni e prigioniero di uno stile usurato in quanto canone visivo, e Refn un giovane regista a cui piace giocare facile. I loro due film sono al tempo stesso bellissimi e insopportabili, entrambi emblemi di un'immobilità che il cinema sta vivendo come una condanna che non riesce a risolvere. E nella quale, in fondo, non si trova poi così male, chiuso su stesso ma capace ancora di grandi acuti.


Il problema, insomma, per come la vedo io, non è decidere se il cinema ha ancora un senso oppure no, se è morto oppure no, come scrive Menarini difendendo un'idea di autorialità che pensavo acquisita. Il problema è accettare l'idea che il cinema ormai da anni è in una fase di stallo, incapace di reinventarsi e in grado solamente di "ripetere sulla differenza" (prendendo in prestito l'espressione da Bellour).

Malick, per intenderci, non sa girare in modo diverso da La sottile linea rossa: e se la cosa mostrava la corda già nel pur grandioso The New World, figuriamoci ora. Ma il suo modo di narrare per accumulo e avvicinamenti progressivi ai corpi crea racconti di potenza ed emozioni senza pari: su questo (e in particolare sulla parte del film ambientata negli anni '50) non c'è nemmeno da discutere. Non diversamente, Refn concepisce un noir come Drive solo come residuo di immaginario filtrato da altro immaginario, da Friedkin a Mann a tonnellate di cinema di Hong Kong; eppure Drive è un film girato in modo grandioso, con uno uso dello spazio e una dilatazione del tempo che è il semplice ammodernamento dello stile classico.

Non c'è soluzione al dilemma tra autorialità e commercio, tra originalità e riedizione. Semmai, il vero problema è che al cinema contemporaneo manca l'alterità, manca lo smarcamento da quell'angolo del ring in cui è andato a ficcarsi e dal quale, forse suo malgrado, riesce ancora a tirar fuori qualcosa di buono.

2 commenti:

  1. sai che non sono proprio d'accordo?

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  2. Benissimo, figurati. Parliamone, così movimentiamo un po' la cosa.
    PS: chi sei?

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