A caldo, questa mattina, ho scritto per un giornale quello che ho pensato ieri sera appena ho visto le immagini della strage in Arizona. Lo metto qui, perché in fondo riguarda argomenti di cui ho spesso scritto.
Questo anno apertosi con l’ennesima strage politica negli Stati Uniti, piombata sulle nostre prime pagine come un evento che ci riguarda da vicino, e non come una tragedia successa a dieci ore di volo aereo, ci ricorda quanto la morte sia il metronomo del nostro tempo. Solo i massacri collettivi ci spingono a chiederci quali derive stia prendendo la nostra società; solo l’uccisione di un militare in Afghanistan induce i politici a interrogarsi sul senso della missione in Medio Oriente; solo l’ennesima semina di cadaveri nel golfo di Sicilia – e a volte nemmeno più quella – fa sorgere dubbi sui prezzi da pagare nell’era del benessere. La morte è sempre lì, in agguato, coccolata dalla morbosità delle breaking news, di cui proprio gli americani ci hanno insegnato la meraviglia, e al tempo stesso temuta come un evento impossibile da spiegare.
Anni fa, uno dei grandi film del decennio passato, Elephant di Gus Van Sant, dedicato al massacro nella Columbine High School del 20 aprile 1999, aveva interpretato il silenzio sbigottito che attanaglia di fronte alla morte violenta in uno sguardo attonito e ieratico sulla realtà, un movimento lento e ondulatorio che rincorreva l’orrore senza raggiungerlo, perché impossibile da comprendere e dunque impedire. L’elefante del titolo veniva dalla celebre leggenda buddista degli uomini incapaci di decifrare l’identità dell’animale perché troppo grosso per l’occhio umano: l’impossibilità di guardare era il segno di una mancanza, l’incapacità di comprendere la sorda realtà del mondo.
Ma quella folgorante riflessione sull’impotenza dello sguardo non è stata nel frattempo recepita dalla tv e da internet: non poteva esserlo, in fondo, perché troppo dubbiosa e interrogativa. E ora che un nuovo omicidio sull’asfalto dell’America è stato compiuto, ora che si torna a paragonare la povera Gabrielle Giffords ai Kennedy (solo un po’ più fortunata di loro), ora che si risentono le polemiche sull’eccessiva facilità di procurarsi le armi negli Stati Uniti, ora che sei persone innocenti hanno pagato il conto dell’odio che la destra anti-abortista sputa da anni contro Obama, a ritornare sono soprattutto le immagini che fanno da immancabile corollario ad episodi come questo: i nastri gialli della polizia tirati lungo il perimetro del centro commerciale, l’ammasso di candele, fiori e foto delle vittime contro i muretti del pianto, gli abbracci di uomini e donne in lacrime con lo sguardo rivolto al fuori campo, a chiedere spiegazione di un evento con responsabili precisi e nessun vero colpevole.
Per noi che stiamo in un altro paese ma siamo costretti a vivere le tragedie americane come moniti alle nostre debolezze, la questione riguarda unicamente lo sguardo: quello che viviamo, lo viviamo con gli occhi; quello che sappiamo, lo sappiamo dalla tv, senza conoscere l’effettiva realtà che ha generato la tragedia. Siamo impotenti, siamo distanti, siamo sicuri: e quando arriva la morte chiediamo di comprendere ciò che accettiamo comodamente di vedere. Continuiamo perciò a guardare, tra l’attonito e l’affascinato, sperando che l’elefante si tenga ancora lontano dai nostri centri commerciali e dalle nostre scuole.
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