L'altra sera ho rivisto L'ultimo dei mohicani in tv. Era tardi, mi sono detto ne guardo solo dieci minuti ma poi non sono più riuscito a staccarmi, un po' perché il film è un movimento unico, una scena che genera l'altra, un discorso poderoso e travolgente, e un po' perché non speravo altro di arrivare alla parte finale, quella in cui tutti corrono lungo il crinale delle montagna per la resa dei conti, in cu la musica parte come se fosse lo start di una gara e la melodia pomposa corre più dei personaggi, trascina via tutto e tutti, fa stare lì con il cuore e porta via la testa e tu piangi per quelli che muiono, ti risollevi per i cattivi che cadono, speri che Daniel Day Lewis arrivi in tempo, sai che arriverà, e che lo farà in tempo, ma non abbastanza per salvare tutti, perché questo è cinema classico e l'amaro in bocca che lascia oltre il finale tiene viva la voglia di tornare al cinema, di credere ancora al cinema, perché una cosa così esiste solo al cinema, dove la morte è eroica ed è bella da vedere e dove le cose belle ma tristi sono più belle delle cose solo belle e basta.
I sette minuti finali di L'ultimo dei mohicani, dall'inizio della musica al primissimo piano dell'indiano cattivo che schiatta, per me sono il cinema classico, anche se il film del 1992, o forse soprattutto per questo, visto che al film successivo Mann avrebbe girato Heat e allora il cinema classico l'avrebbe utilizzato per inventarsi il mosaico della modernità.
Uno si chiede cos'è il cinema popolare. Questa roba qui.
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