Sono tanti i film di questo festival che si giocano tutto negli ultimi quindici minuti: quello di Mike Leigh, Another Year, ennesima commedia umana nella media-borghesia inglese che in qualche modo funziona sempre, e il rumeno Aurora di Cristi Puiu. Entrambi puntano sulla reiterazione, l’uno delle stagioni e l’altro delle azioni di un uomo, e poi sfociano in finali che sono come colpi d’ala, segnali mandati allo spettatore: la resistenza dello spettatore paga, sono momenti di grande cinema, ma forse siamo di fronte a uno sguardo che non crede molto in se stesso e sceglie di spendere quel poco che gli è rimasto nei momenti decisivi.
Leigh, ad esempio, riscatta un film di primi piani e campi-controcampi (dove comunque si ride parecchio) con un movimento di macchina circolare che abbraccia i suoi personaggi e li lascia sulla scena: l’impressione è di una visione unica, ma in realtà Leigh divide fra fortunati e sfortunati, belli e brutti, come la vita, e il suo film lieve e malinconico diventa improvvisamente spietato, inevitabile, realissimo. Sono pochi minuti, ma ne vale la pena.Esattamente come per le tre ore del fluviale e monocorde Aurora, che per tutto il tempo insegue un uomo che fa cose poco chiare, che ammazza quattro persone senza che se ne capisca il motivo e poi alla fine spiega tutto. In una sequenza lunghissima e inerme come il resto del film, Puiu mette insieme la piattezza del reale con l’assurdità della follia e il contrasto, con quella macchina da presa che osserva sempre allo stesso modo, genera un’emozione sinistra e inattesa.
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