The Fantastic Mr. Fox è il solito film di Wes Anderson: frontale, immobile, colorato, autistico. Per chi già lo sa è una rottura di palle. Per chi ha il dono della pazienza, invece, nella vita delle volpi ci vede la sua. Come per i figli sbagliati dei Tenenbaum, di Steve Zissou e del Treno per il Darjelling. Anderson in fondo non ha mai fatto altro: raccontare pezzi di vita dei suoi personaggi come se fossero nostri.
E queste volpi, queste volpi che sfidano la loro natura animale, che da imbranate provano a diventare delle dure; queste volpi che non chiedono altro che affetto, che, piccole agili e sgraziate, sono così simili a noi eppure sempre animalesche; queste volpi scaltre e innocenti, rapide e furbette, sono il segno del nostro eterno fanciullo. Niente di nuovo, certo, ma Anderson trasforma questa rivelazione in un unico, grande discorso sulla diversità. Sul dono della diversità. La frase che ritorna più volte nel film - I know what it means to be... different - è il marchio del suo cinema e dei suoi minuscoli eroi, sempre così fragili, ottusi, tenaci, teneri, soli, abbandonati, ma incapaci di rinunciare all'idea di loro stessi. L'inquadratura fissa e frontale è lo specchio della loro immagine interiore. Come si fa a dire che sono freddi e senza vita? Immobili e cocciuti, ricordano le statue incenerite di Giacometti, con i loro volti interrogativi e muti, sculture di Duane Hanson a cui è stato dato il cuore dei bambini.
C'è qualcosa di rivelatore nel cinema di Anderson, un'epifania simile a quella che si prova ritrovando il respiro dei sentimenti comuni nelle figure dei Peanuts o nei ritratti lucidi di Van Eicke. Tra lo smalto della vernice, il tratto nero della linea e i bordi retti dell'inquadratura, la vita si fa spazio. E senza distruggere nulla, presentandosi discreta in scena, se ne sta lì immobile, tra noi e l'immagine, a farsi guardare. Un film, in fondo, non chiede altro.
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