domenica 21 settembre 2014
Piccolo e Maresco: metterci la faccia o sparire
Un paio di giorni fa Francesco Piccolo ha tenuto un incontro nella mia città, e sono andato ad ascoltarlo. Il desiderio di essere come tutti, che due mesi fa ha vinto lo Strega, è un libro che in rigorosa sequenza mi ha fatto prima incazzare, poi divertire, poi riconoscere e infinire pensare che andrebbe letto da chiunque abbia mai votato sinistra nella sua vita, o abbia a cuore una buona fetta di persone che fanno parte di questo Paese. Perché riguarda il rapporto tra la storia personale e la storia collettiva di ciascun cittadino, perché affronta la relazione fra pubblico e privato negli anni del berlusconismo, perché cerca e trova in modo onesto colpe e responsabilità alla base dello scollamento fra la sinistra e il paese reale almeno a partire dalla morte di Berlinguer in poi.
Piccolo è di sinistra, prima ancora è stato comunista, e nel suo libro salda la storia privata e politica di ragazzo casertano di origini borghesi alla storia dell''Italia dai primi anni '70 a oggi. Nel Desiderio di essere come tutti ci sono il compromesso storico e gli anni della giovinezza a Caserta, lo scoppio del colera in Campania e il liceo, la sinistra extraparlamentare e gli amori fallimentari, i dubbi e le paure durante il rapimento Moro e le liti con il padre missino, la morte di Berlinguer e le serata in discoteca con gli amici, il terremoto dell'Irpinia e il trasferimento a Roma, l'arrivo di Berlusconi, l'incontro con la futura compagna e l'errore del voto a Rifondazione comunista nel '96...
Piccolo parla di autobiografica, ovviamente, la sua è un'indagine personale che a forza di ragionamenti e sillogismi risale alle origini ideali di una persona colta e consapevole; ma è evidente che nel suo libro c'è qualcosa di più, c'è un ricoscimento da parte del lettore - o meglio, da parte del lettore di sinistra - che trasforma la lettura in una seduta di terapia comune, un'analisi che riguarda una buona fetta di elettorato italiano, non solo quello che un tempo fu comunista, ma forse quasi tutto quel 41% raccolto da Renzi alle ultime elezioni europee. La vita personale di Piccolo è insomma un pretesto lettarario, un modo per parlare dello spirito di una nazione, e non dello spirito del tempo (lo spirito del tempo presente, quello che Hegel vedeva passare sotto la sua finestra...) perché in realtà quello di Piccolo è un libro propedeutico per il presente, ma rivolto a un passato da rivendicare, accettare ed eventualmente dimenticare.
In questo dialogo costante fra pubblico e privato, fra individuo e società, l'elemento chiave resta quello personale, la scelta narcisista e in fondo onesta di elevarsi a protagonista di un modello di vita raccontato come unico, esemplare ma in realtà esposto al riconoscimento e al giudizio collettivo. Piccolo, insomma, ci mette la faccia, non si nasconde, racconta fiero e pure un po' furbetto le sue origini ideali (la scelta di diventare comunista dopo un gol della Germania est contro la Germania dell'ovest ai Mondiali del '74 sa in effetti un po' di controstoria a posteriori...), i suoi sbagli e le sue sconfitte.
E' evidente che si tratta di un lavoro su di sé, e pure di un lavoro sano, utile, umile e per molti versi coraggioso. Eppure, in ogni pagina del Desiderio di essere come tutti, nei suoi ragionamenti contorti e perfetti, quasi Piccolo si sforzasse di inserire la sua vita in un modello deciso a priori (e non è detto che non sia così, o che sia sbagliato), è evidente la sensazione dello stesso autore che mettersi in prima persona di fronte al lettore non basta, che qualcosa manca sempre. O forse che qualcosa è di troppo, perché quando Piccolo decide di sviscerare in stile scuola Holden un racconto di Carver, Con tanta di quell'acqua a due passi da casa, quello che implicamente ammette è che alla sua prosa manca proprio la nettezza di stile dello scrittore americano, le sue frasi scarnificate, la capacità di inserire in un solo rapporto di coppia, in una sola vicenda tanto banale quanto orribile, il miscuglio di colpe e responsabilità, bassezze e buone intenzioni che Il desideri di essere come tutti impiega duecento e passa pagine e quarant'anni di vita ad affrontare. E' evidente, insomma, che a Carver riesce quello che Piccolo non può, non vuole o non sa fare: nascondersi nella sua storia, lasciare che sia la realtà a parlare, e non la sua ricostruzione.
Piccolo è onesto, ma prolisso, inevitabilmente prolisso, perché nel suo lavoro d'analisi deve spiegare, capire, cambiare. Dice le cose che vanno dette, le cose che ogni lettore di sinistra dovrebbe leggere e sapere, ma il suo percorso autobiografico viene prima della conoscenza del mondo; si rivolge al futuro, ma ancora spaventato dal presente e aggrappato al bisogno di ripercorrere il passato. Il presente manca, perché Piccolo non sa ancora come raccontarlo; nel presente dovrebbe nascondersi, come Carver nei suoi racconti, e cercare attraverso la conoscenza dell'altro, del diverso da sé, quel volto sconosciuto del paese che è il vero convitato di pietra del suo lavoro, la tessera mancante di una vita piena, dignitosa, ma a tratti fallimentare.
È facendo questi ragionamenti che mi è venuto come la cosa più simile a Il desiderio di essere come tutti vista o letto quest'anno sia Belluscone - Una storia siciliana, in cui Franco Maresco cerca allo stesso modo di inseguire un mondo inafferrabile e incomprensibile, un mondo - quello dei rioni palermitani dominati dalla mafia, dal mito di Berlusconi e dalle note dei cantanti neomelodici - che per quanto osceno, stupido e pure criminale, resta pur sempre vicino, italiano pure lui, e quindi da conoscere e affrontare.
Quello che fa Maresco, però, è incredibilmente speculare a quello che fa Piccolo: cioè si nasconde, si sottrae all'occhio dello spettatore, sparisce letteralmente dal film, sia comparendo come semplice voce fuori off, sia facendo perdere le proprie tracce, con la ricerca di Tatti Sanguineti che fa da impossibile tentativo di riordinare una realtà dissestata.
In Belluscone Maresco ammette una sconfitta epocale, una sconfitta personale, politica e collettiva. L'orrore grottesco del suo celebre mondo cinico si è fatto norma, potere, lingua sgrammatica ma popolare, e l'autopsia dal vivo che effettua sulla propria terra e su di sé - un sé disperso e ammutolito - è terribile. Eppure a me sembra che Maresco insegua sì un orrore comico e drammatico, ma pure un'Italia colpevole ed esistente, umana e diretta. Senza ottimismo o il suo contrario, senza costruzioni o giudizi, Maresco si arrende al reale e al suo mistero; lo osserva ancora, lo interroga anche, ma rinuncia alla possibilità di dargli un ordine. L'ordine, come fa Piccolo, lo si fa sulla propria vita - ed è già qualcosa. Mentre per Maresco restano solo il confronto e lo sguardo muto, e francamente non so quanto tutto ciò sia pessimista (o nel caso di Piccolo ingenuo), o semplicemente inevitabile e definitivo. Quella mostrata da Belluscone è in fondo la stessa Italia con cui Piccolo si rammarica di non essere riuscito a dialogare, l'Italia che ha dominato in questi ultimi vent'anni senza alcun problema di coscienza e di conoscenza.
La vera questione, allora, non è dove stiano il giusto e lo sbagliato. La vera questione è quando questo altro mondo, pure in una versione meno eccessiva e corrotta di quello di Maresco, comincerà a essere incontrato e compreso. Il desiderio di essere come tutti e Belluscone, una storia siciliana sono allora in qualche modo uniti, l'uno il lato mancante dell'altro: il secondo la prosecuzione autodistruttiva ma inevitabile del primo; il primo la versione volenterosa del secondo.
Il paese e il tempo presente restano lì, incomprensibili e sbagliati, ma tocca al singolo raccontarlo e incontrarlo, in uno sforzo gigantesco per far parte del tutto, in prima persona o disperso nell'aria. Questa che viviamo, in fondo, non è altro che la nostra storia di italiani, finalmente libera del piatto di grano, sporca ma non idealizzata, ridicola e nonostante tutto autentica.
giovedì 5 settembre 2013
Venezia 70 - Errol Morris + Frederick Wiseman
domenica 1 settembre 2013
Venezia 70 - Memphis, Tim Sutton
Ieri ho visto Memphis, il nuovo film di Tim Sutton, regista americano conosciuto lo scorso anno quando presentò il precedente film Pavilion al Torino Film Festival. È un film liberissimo e per questo affascinante. Su CineforumWeb ne ho scritto, e lo rimetto qui sotto. Poi ieri è stato presentato Il nuovo corto di Miguel Gomes, Redemption, che è un capolavoro commovente, insieme alla nuova puntata di Heimat la cosa più bella vista a questa Mostra. Se riesco ne scrivo domani.
Memphis, quartiere popolare, esterno giorno. La macchina da presa scorre lenta a inquadrare con un carrello laterale due ragazzine di colore che camminano lungo un marciapiede. Una voce chiama da lontano, nessuno sa a chi appartenga, una delle due bambine si volta verso l'obiettivo e interrogativa chiede cosa fare. Stacco. Un uomo di colore parla alla tv, altro luogo, altri personaggi, comincia il racconto. Ma il film è segnato, sono bastati secondi.
La trama ha per protagonista un bluesman in crisi creativa (interpretato dal vero musicista Willis Earl Beal) impegnato a incidere un album con alcune leggende della scena locale, ma tentato da un desiderio di sparizione e rinascita spirituale. Sembra un pazzo posseduto, porta su di sé il peso di una grande tradizione, non sa che farsene e a chi donare il suo talento. Il film lo segue, lo filma nel quotidiano, con i suoi amici, le sue donne, i suoi deliri, lo abbandona nelle zone senza speranza della sua anima, ne fa una figura senza guida. Più che un racconto di perdizione, il suo è un cammino incerto, una freccia lanciata verso il nulla. Tutto sta in quel primo sguardo in macchina, che nemmeno appartiene al protagonista ma che grazie alla struttura liberissima, inafferrabile del film graffia come un'epigrafe, lascia senza risposta una domanda d'aiuto, la richiesta di un senso compiuto di fronte allo smarrimento.
E Memphis, secondo film dell'americano Tim Sutton dopo lo splendido Pavilion, realizzato all'interno della Biennale College, di risposte non ne offre: è un film libero e vagabondo come il suo protagonista e come la mitologia americana che scandaglia. È il racconto lieve di una ricerca esistenziale confusa, la ricerca dei frammenti di una cultura black dispersa, lo sguardo mai partecipe su una comunità nera sospesa tra sciamenisimo e fede, messe cantate e idolatria fanatica. Un mondo senza appigli, senza direzione, se non quella che riporta, come dice il suo protagonista in una confessione delirante e sincera, verso la terra madre e il suo calore accogliente buono anche da fottere.
Memphis, quartiere popolare, esterno giorno. La macchina da presa scorre lenta a inquadrare con un carrello laterale due ragazzine di colore che camminano lungo un marciapiede. Una voce chiama da lontano, nessuno sa a chi appartenga, una delle due bambine si volta verso l'obiettivo e interrogativa chiede cosa fare. Stacco. Un uomo di colore parla alla tv, altro luogo, altri personaggi, comincia il racconto. Ma il film è segnato, sono bastati secondi.
La trama ha per protagonista un bluesman in crisi creativa (interpretato dal vero musicista Willis Earl Beal) impegnato a incidere un album con alcune leggende della scena locale, ma tentato da un desiderio di sparizione e rinascita spirituale. Sembra un pazzo posseduto, porta su di sé il peso di una grande tradizione, non sa che farsene e a chi donare il suo talento. Il film lo segue, lo filma nel quotidiano, con i suoi amici, le sue donne, i suoi deliri, lo abbandona nelle zone senza speranza della sua anima, ne fa una figura senza guida. Più che un racconto di perdizione, il suo è un cammino incerto, una freccia lanciata verso il nulla. Tutto sta in quel primo sguardo in macchina, che nemmeno appartiene al protagonista ma che grazie alla struttura liberissima, inafferrabile del film graffia come un'epigrafe, lascia senza risposta una domanda d'aiuto, la richiesta di un senso compiuto di fronte allo smarrimento.
E Memphis, secondo film dell'americano Tim Sutton dopo lo splendido Pavilion, realizzato all'interno della Biennale College, di risposte non ne offre: è un film libero e vagabondo come il suo protagonista e come la mitologia americana che scandaglia. È il racconto lieve di una ricerca esistenziale confusa, la ricerca dei frammenti di una cultura black dispersa, lo sguardo mai partecipe su una comunità nera sospesa tra sciamenisimo e fede, messe cantate e idolatria fanatica. Un mondo senza appigli, senza direzione, se non quella che riporta, come dice il suo protagonista in una confessione delirante e sincera, verso la terra madre e il suo calore accogliente buono anche da fottere.
sabato 31 agosto 2013
Venezia 70 - La moglie del poliziotto
Ieri sera è passato in concorso il film parecchio disturbante di Philip Gröning, Die Frau des Polizisten. Ne ho scritto per Cineforum e il pezzo lo trovate qui oppure qui sotto, se vi va.
Anfang, cioè inizio. Ende, cioè fine. Apertura e chiusura, dentro e fuori, prima e dopo, sopra e sotto. Così, meccanicamente, come un telaio che ripete la stessa operazione fino a tessere la tela, Philip Gröning costruisce la trama del suo Die Frau des Polizisten. Al centro c’è l’orrore della violenza domestica, le percosse di un marito poliziotto alla moglie e la coercizione psicologica della loro bambina di quattro anni. Ma in realtà al centro di Die Frau des Polizisten non c’è nulla, perché Gröning differisce la sua stessa trama, gioca di sottrazione fino ai limiti del divertimento, sceglie soprattutto di restare sulla soglia: di un racconto, che dei suoi 59 capitoli coglie solamente l’anfang e l’ende, le cause e le conseguenze, mai l’evento in sé; di una casa, filmata come luogo distante e impossibile, angusto oppure gigantesco, innaturale oppure accogliente; di una famiglia, di cui si osserva la progressiva distruzione come evento puro e immutabile. Tutto quanto – il racconto, la casa, la famiglia – è lì di fronte, esposto nella sua evidenza, ma il film non può coglierlo. Osserva per tre ore banali situazioni domestiche (dormire, svegliarsi, lavarsi, mangiare, giocare) e a ogni passaggio, senza che nulla apparentemente cambi, con i soli lividi sul corpo della donna a urlare segnali muti, rende esplicito un dolore mai mostrato. Per Gröning l’iperrealismo è una questione di dimensioni, la sua messinscena non concede appigli, sfugge a ogni tentativo di essere afferrata; come una scultura a forma umana di Ron Mueck provoca disagio percettivo, così realistica da porsi come specchio, così sproporzionata da disturbare il corpo prima ancora che l’occhio. Non a caso Die Frau des Polizisten è un film di oggetti, di coperte, di lenzuola, di divani, e di sensazioni fisiche, di puzza, di paura che si odora, di sangue che scorre sotto la pelle e di lividi che crescono sopra la pelle. Dentro, però, non si entra mai, dentro non si può entrare: lì l’orrore sarebbe intollerabile, impossibile da reggere. Come gli occhi di una bambina che ti fissano vuoti e interrogativi.
Anfang, cioè inizio. Ende, cioè fine. Apertura e chiusura, dentro e fuori, prima e dopo, sopra e sotto. Così, meccanicamente, come un telaio che ripete la stessa operazione fino a tessere la tela, Philip Gröning costruisce la trama del suo Die Frau des Polizisten. Al centro c’è l’orrore della violenza domestica, le percosse di un marito poliziotto alla moglie e la coercizione psicologica della loro bambina di quattro anni. Ma in realtà al centro di Die Frau des Polizisten non c’è nulla, perché Gröning differisce la sua stessa trama, gioca di sottrazione fino ai limiti del divertimento, sceglie soprattutto di restare sulla soglia: di un racconto, che dei suoi 59 capitoli coglie solamente l’anfang e l’ende, le cause e le conseguenze, mai l’evento in sé; di una casa, filmata come luogo distante e impossibile, angusto oppure gigantesco, innaturale oppure accogliente; di una famiglia, di cui si osserva la progressiva distruzione come evento puro e immutabile. Tutto quanto – il racconto, la casa, la famiglia – è lì di fronte, esposto nella sua evidenza, ma il film non può coglierlo. Osserva per tre ore banali situazioni domestiche (dormire, svegliarsi, lavarsi, mangiare, giocare) e a ogni passaggio, senza che nulla apparentemente cambi, con i soli lividi sul corpo della donna a urlare segnali muti, rende esplicito un dolore mai mostrato. Per Gröning l’iperrealismo è una questione di dimensioni, la sua messinscena non concede appigli, sfugge a ogni tentativo di essere afferrata; come una scultura a forma umana di Ron Mueck provoca disagio percettivo, così realistica da porsi come specchio, così sproporzionata da disturbare il corpo prima ancora che l’occhio. Non a caso Die Frau des Polizisten è un film di oggetti, di coperte, di lenzuola, di divani, e di sensazioni fisiche, di puzza, di paura che si odora, di sangue che scorre sotto la pelle e di lividi che crescono sopra la pelle. Dentro, però, non si entra mai, dentro non si può entrare: lì l’orrore sarebbe intollerabile, impossibile da reggere. Come gli occhi di una bambina che ti fissano vuoti e interrogativi.
giovedì 29 agosto 2013
Venezia 70 - Die andere Heimat
E già che ci sono, riposto qui sopra quello che ho scritto su CineforumWeb (che ha un ottimo speciale dedicato alla Mostra e aggiornato giorno per giorno) della quinta puntata della saga di Heimat. Lo potete leggere qui, oppure qui sotto. Se vi va, come sempre.
Nella lingua degli indios dell’Amazzonia esiste una parola che significa all’incirca “la freccia alla fine del tempo”. Jacob Simon, il protagonista della quinta puntata di Die Andere Heimat, quella freccia la insegue, la afferra e la rilancia, per ritrovarsi ogni volta daccapo, solo al mondo e appagato dall’unico sensazione che nella sua ignavia sa vivere fino in fondo, il “respiro della madre”.
Nell’Hunsrück prussiano, tra il 1842 e il 1844, in un mondo di contadini e artigiani che lottano contro la miseria, Jacob è un intellettuale sognatore, un visionario che di fronte alle carovane di povera gente pronta a immigrare in Brasile, studia la lingua delle popolazioni indigene, si appropria con l’immaginazione di un mondo altro, ricrea nella sua testa, nei suoi libri un’altra patria (traduzione letterale del titolo) e la trasforma nell’altrove di cui l’Occidente ha ancora oggi bisogno per sopravvivere a se stesso (solo che al posto di Porto Alegre abbiamo lo spazio di Gravity, da cui nasce la nuova Eva di Sandra Bullock…).
Jacob è un eroe negativo, si nega al mondo, la Storia gli passa davanti, gli ruba le idee, lo imprigiona, lo travolge, e lui ogni volta si rialza, si appende a testa in giù e vive il “suo” mondo solamente per immaginarlo e reinventarlo.
Arrivato alla quinta puntata del suo Heimat, la patria amata e abbandonata, la terra e il sangue di un intero popolo, Reitz afferra pure lui la freccia del tempo, la rivolge all’indietro e reinventa in un passato lontano, in un tempo non storico ma ancestrale, come dice lo stesso Jacob, un nuovo dramma familiare sobrio e fluviale, sognante e svagato, illuminato da un bianco e nero splendido, plastico e insieme naturalista, e purtroppo, va detto, appesantito dal simbolismo di oggetti e particolari che si colorano di toni infuocati.
Non tutto funziona, ma tutto fa parte di una inevitabile, necessaria reinvenzione della realtà, che sta negli occhi chiusi eppure aperti di Jacob e nelle intenzioni dello stesso Reitz, capace ancora oggi di girare lo stesso film di sempre e di saper ancora meravigliare.
Nella lingua degli indios dell’Amazzonia esiste una parola che significa all’incirca “la freccia alla fine del tempo”. Jacob Simon, il protagonista della quinta puntata di Die Andere Heimat, quella freccia la insegue, la afferra e la rilancia, per ritrovarsi ogni volta daccapo, solo al mondo e appagato dall’unico sensazione che nella sua ignavia sa vivere fino in fondo, il “respiro della madre”.
Nell’Hunsrück prussiano, tra il 1842 e il 1844, in un mondo di contadini e artigiani che lottano contro la miseria, Jacob è un intellettuale sognatore, un visionario che di fronte alle carovane di povera gente pronta a immigrare in Brasile, studia la lingua delle popolazioni indigene, si appropria con l’immaginazione di un mondo altro, ricrea nella sua testa, nei suoi libri un’altra patria (traduzione letterale del titolo) e la trasforma nell’altrove di cui l’Occidente ha ancora oggi bisogno per sopravvivere a se stesso (solo che al posto di Porto Alegre abbiamo lo spazio di Gravity, da cui nasce la nuova Eva di Sandra Bullock…).
Jacob è un eroe negativo, si nega al mondo, la Storia gli passa davanti, gli ruba le idee, lo imprigiona, lo travolge, e lui ogni volta si rialza, si appende a testa in giù e vive il “suo” mondo solamente per immaginarlo e reinventarlo.
Arrivato alla quinta puntata del suo Heimat, la patria amata e abbandonata, la terra e il sangue di un intero popolo, Reitz afferra pure lui la freccia del tempo, la rivolge all’indietro e reinventa in un passato lontano, in un tempo non storico ma ancestrale, come dice lo stesso Jacob, un nuovo dramma familiare sobrio e fluviale, sognante e svagato, illuminato da un bianco e nero splendido, plastico e insieme naturalista, e purtroppo, va detto, appesantito dal simbolismo di oggetti e particolari che si colorano di toni infuocati.
Non tutto funziona, ma tutto fa parte di una inevitabile, necessaria reinvenzione della realtà, che sta negli occhi chiusi eppure aperti di Jacob e nelle intenzioni dello stesso Reitz, capace ancora oggi di girare lo stesso film di sempre e di saper ancora meravigliare.
Venezia 70 - La donna è il futuro dell'uomo
Purtroppo questo blog vive solo ogni tanto: quando ho tempo di scrivere, quando non ho troppo lavoro, quando sono ai festival. All'inizio era diverso, mi ero imposto di scrivere ogni giorno, rispettavo la consegna: oggi invece non è più così, oggi se chiedi il servizio in camera è già tanto se ti arriva di giovedì... Comunque, Casinò a parte, oggi sono a Venezia, per cui ho tempo di scrivere, anche se poi alla fine non scrivo esattamente per il blog, ma per il sito di Cineforum (se vedo film che mi piacciono), e qui sopra metto quello che scrivo dall'altra parte, e se mi va anche altre robe.
Come primo pezzo metto quello che ho scritto sul nuovo, spledente sito di Cineforum a proposito di Die andere Heimat di Edgar Reitz, quinta puntata della saga, lunga tre ore e cinquanta e a parte le sbandate colorate in uno splendido mare di bianco e nero, un film bellissimo. L'ho visto dopo Gravity di Cuaron, che come film d'apertura ci sta benissimo, è visivamente strabiliante e pomposo da un punto di vista estetico e spirituale, un po' cattolico e un po' darwinista - un colpo di qui e uno di là - come si addice ai tempi. Poi c'è Sandra Bullock che quando si toglie la tuta spaziale e resta in canotta e shorts fa parecchio bene agli occhi e al cuore, è sexy quanto Sigourney Weaver nel finale di Alien (e francamente non pensavo di trovare qualcosa di altrettanto eccitante, al cinema, di Sigourney Weaver nel finale di Alien); e ancora è un film bello perché fa piacere capire dopo quasi dieci anni il senso del titolo di un vecchio film di Hong Sangsoo, La donna è il futuro dell'uomo, che all'epoca, era il 2004 credo, non sapevo come collocare e ora dopo Gravity sì, ora so che dopo lo spazio profondo e il bimbo di 2001 si può ancora rinascere e rimettersi in piedi, con una bella manciata di fango in mano. Solo che Adamo è donna, e dunque è Eva, e se per caso viene cocciuta come le donne al volonte di Via Castella Bandiera di Emma Dante sono cazzi (però anche segno di una forza così dirompente che dalla sindrome da lemming dell'umanità - vedi l'ultima, infinita inquadratura del film - non può che venir fuori qualcosa di buono).
Come primo pezzo metto quello che ho scritto sul nuovo, spledente sito di Cineforum a proposito di Die andere Heimat di Edgar Reitz, quinta puntata della saga, lunga tre ore e cinquanta e a parte le sbandate colorate in uno splendido mare di bianco e nero, un film bellissimo. L'ho visto dopo Gravity di Cuaron, che come film d'apertura ci sta benissimo, è visivamente strabiliante e pomposo da un punto di vista estetico e spirituale, un po' cattolico e un po' darwinista - un colpo di qui e uno di là - come si addice ai tempi. Poi c'è Sandra Bullock che quando si toglie la tuta spaziale e resta in canotta e shorts fa parecchio bene agli occhi e al cuore, è sexy quanto Sigourney Weaver nel finale di Alien (e francamente non pensavo di trovare qualcosa di altrettanto eccitante, al cinema, di Sigourney Weaver nel finale di Alien); e ancora è un film bello perché fa piacere capire dopo quasi dieci anni il senso del titolo di un vecchio film di Hong Sangsoo, La donna è il futuro dell'uomo, che all'epoca, era il 2004 credo, non sapevo come collocare e ora dopo Gravity sì, ora so che dopo lo spazio profondo e il bimbo di 2001 si può ancora rinascere e rimettersi in piedi, con una bella manciata di fango in mano. Solo che Adamo è donna, e dunque è Eva, e se per caso viene cocciuta come le donne al volonte di Via Castella Bandiera di Emma Dante sono cazzi (però anche segno di una forza così dirompente che dalla sindrome da lemming dell'umanità - vedi l'ultima, infinita inquadratura del film - non può che venir fuori qualcosa di buono).
mercoledì 17 luglio 2013
Dove vanno a finire le notizie?
Domenica scorsa è ricominciata The Newsroom, la serie scritta da Aaron Sorkin e ambientata nella redazione di un telegiornale americano. È alla seconda stagione ed è già alla prova del nove, dopo una prima stagione deludente per gli amanti di Sorkin e intermittente per tutti gli altri, tra fiumi di retorica americana e sacrosante battaglie sull’etica del giornalismo. Ci ho pensato, a The Newsroom e al fatto che ricominciasse proprio in questi giorni, la scorsa settimana, quando in rete è girato parecchio, prima in inglese poi in italiano, un articolo di Francesca Borri, inviata di guerra freelance che ha scritto con buona dose di giornalismo romanzesco quanto sia difficile, oggi, venire rispettati e ben pagati per un lavoro durissimo e un tempo molto invidiato. Ci ho pensato proprio perché il pezzo affronta, spesso in modo involontario per via del suo stile grave, un sacco di questioni aperte sul giornalismo, e soprattutto sull'uso che si fa della parola e delle tecniche narrative in molti giornali («Repubblica» su tutti). Questo perché Francesca Borri, al di là della richiesta di verifica (di fact checking) nata dopo il post di un fotografo di guerra inviato negli stessi luoghi della giornalista freelance, e ovviamente al di là del rispetto che merita per il lavoro che ha scelto di fare (e che tra l'altro ha scatenato un ampio dibattito), scrive in un modo per me insopportabile, emblema di un giornalismo pomposo e autoassolutorio, certo consapevole di vivere sul filo del rasoio, ma per nulla restio a farlo sapere a chiunque. Non sto a farla lunga sui difetti della sua prosa, altri hanno fatto meglio di me: ma quando Borri scrive “e la mia giovinezza, onestamente, è finita ai primi pezzi di cervello che mi sono schizzati addosso, avevo ventitrè anni ed ero in Bosnia”, a me, pur con tutto il rispetto, ripeto, già basta per mollare, per pensare che sì, Francesca Borri farà pure un lavoro importante e rischioso, ma non dovrebbe essere lei a dirlo, non dovrebbe essere lei a dipingersi come Rosa Luxemburg: dovrebbero farlo gli altri, il suo editor, che se la chiama di rado evidentemente non la considera così importante, probabilmente gli bastano la Reuters o la CNN che di certo ha sempre accesa nel suo ufficio; dovrebbe farlo l'opinione pubblica, che sarebbe bello avesse ancora un'idea avventurosa del reporter di guerra, un po' alla Mel Gibson di Un anno vissuto pericolosamente, ma sappiamo tutti che così non è, che oggi ogni suo articolo, frase o parola, ogni immagine scattata o filmata da qualche suo collega pure lui con l'elmo calcato in testa, finisce in mezzo a tutte le altre, in una galassia sterminata e indecifrabile, e ogni quotidiano o mensile o tg che pubblicherà o trasmetterà quelle testimonianze non ce la farà a emergere oltre le centinaia di migliaia e migliaia di informazioni trasmesse in ogni secondo, tanto che alla centesima ripetizione durante il giorno della stessa notizia - sulla CNN, su Al Jazeera, su Sky, su Rai News, su TgCom, su qualsiasi cosa stiamo guardando – tutto si equivale, tutto si appiattisce e si prepara a essere sostituito a partire dalle 5.30 della mattina successiva da qualcosa pronto a sua volta a diventare una forma di vita altrettanto breve e apiattita…
lunedì 3 giugno 2013
Il fantasma
Sta girando molto in rete un post di Julie Maroh, l'autrice di Le bleu est une couleur chaude, il fumetto da cui è tratto La vie d'Adèle, apparso sul blog Les coeurs exacerbés. La scrittrice racconta la sua reazione di fronte al film di Kechiche, le cose che le sono piaciute e quelle che l'hanno delusa, specie il silenzio della produzione e del regista durante le riprese e la freddezza durante la montée des marches di Cannes. Julie Maroh dimostra grande correttezza nei confronti dell'adattamento cinematografico, non difende gelosamente la sua creatura e ne accetta i parziali o grandi tradimenti, scrive con onestà del proprio lavoro e di quello altrui, rivela l'ammirazione per Kechiche, riconosce che il film è pienamente un'opera del suo regista, scritto e girato secondo la sua idea di mondo, e svela giusto tra le righe il dispiacere per qualcosa che non è ciò che forse si aspettava. E' comunque troppo onesta per prendersela, e anzi scrive (scusate la traduzione a naso): "...mi sentirei veramente stupida a rifiutare qualcosa con il pretesto di trovarla diversa da come me l'ero immaginata". Solo che a un certo Julie Maroh non si tiene e arriva a parlare di ciò che l'ha più delusa, la cosa più evidente del film, ciò che presumibilmente rimarrà nel tempo, il sesso ovviamente, che in La vie d'Adèle si pratica e si vede a piene mani (nel senso letterale dell'espressione) e che per Julie Maroh manca di un elemento fondamentale, vale a dire l'elemento lesbico, o in generale l'elemento omosessuale, siccome né Kechiche né le sue due interpreti sarebbero gay. Secondo l'autrice le scene di sesso di La vie d'Adèle sono (mi scuso ancora per la traduzione) "uno sfoggio brutale e chirurgico, dimostrativo e freddo di sesso cosiddetto lesbico che vira nel porno". Soprattutto, aggiunge, quando nel mezzo della sala tutti cominciano a ridere, gli etero perché trovano le scene ridicole e gli omosessuali o i transgender che non le trovano credibili e dunque pensano pure loro siano ridicole. Chi non ride, sostiene Julie Maroh, probabilmente è un maschio troppo occupato a rifarsi gli occhi di fronte all'incarnazione di uno dei propri fantasmi.
domenica 26 maggio 2013
Una questione personale
Poche parole per spezzare una lancia in favore di The Immigrant, che a Cannes è piaciuto a pochissimi. Ho aspettato a scriverne per via del poco tempo a disposizione, ma anche per provare a capire se l'emozione durante e immediatamente dopo la visione del film potesse durare nel tempo, dopo il piccolo, trascurabile shock di ritrovarsi sola e abbandonata in mezzo a generali sospiri di delusione e noia. The Immigrant è per me un film bellissimo, anche a tre giorni dalla visione. Non posso farci niente. James Gray gira in modo così classico, caldo, preciso, senza mai sprecare una sola inquadratura, senza mai scivolare, almeno per me, nel formalismo (che è proprio ciò che stavolta in molti gli rimproverano), da prendermi dritto al cuore e non lasciarmi più. Avrà a che fare con uno stato di precoscienza, con qualche forma a priori un po' troppo esposta, con l'idea di spazio, tempo, città, amore, famiglia, libertà che mi aspetto di trovare non solo al cinema, ma in qualsiasi cosa che leggo vedo e ascolto. Una questione personale, dunque. The Immigrant, per me, ripeto, è un film operistico bellissimo e straziante, girato con uno stile classico e pulito che si fa carico delle mancanze della storia e costruisce spazi, tempi, situazioni (la scena della confessione, il bacio tra la Cotillard e Jeremy Rennier, l'inquadratura finale) di grande, potentissima emozione. Cinema puro che può anche permettersi di abusare della parola e del mélo, con un effetto di ridondanza che non stona, almeno per me, ma approfondisce il senso di lutto e rassegnazione al destino contro cui combatte, da sempre, ogni personaggio di Gray. Per due ore in The Immigrant sono tornato a respirare le atmosfere morbide e soffocate dei flashback del Padrino Parte II, che per me (e mi rendo conto che si tratta ancora di una questione personale) rappresentano l'infanzia da spettatore; ho risentito le musiche struggenti di Toro scatenato (idem come sopra), percependo non nell'uso rallentatore, ma nell'aria di abbandono e mestizia, lo stesso senso di passività ed esclusione dalla Storia che ha colpito intere generazioni di immigrati; ho ritrovato, grazie a luci, vestiti, oggetti, rumori, colori (un po' come nel romanzo La fine di Salvatore Scibona e un po', a denti stretti, come in Leone), una mitologia americana sospesa fra malinconia e liberazione. Il quasi totale dissenso critico mi ha messo senza dubbio la pulce nell'orecchio; evidentemente The Immigrant funziona poco o sbaglia parecchio: ma se non temessi di prendere la più clamorosa delle tranvate, ne parlerei come di un capolavoro. Magari se ne riparlerà quando uscirà nelle sale.
giovedì 23 maggio 2013
La vie d'Adèle
Una lacrima è una lacrima è una lacrima è una lacrima. Ma anche i capelli sono capelli sono capelli sono capelli. E pure il moccio al naso, pure una natica, una spalla, una vagina, una coscia. Soprattutto è la vita, a essere una cosa soltanto: una vita una vita una vita. Di quella di Adèle ora conosciamo i primi due capitoli e magari un giorno potremmo assistere a quelli successivi, come se la incrociassimo per strada e ci immaginassimo quale storia raccontano i suoi capelli, il suo culo, il suo moccio al naso. Il nuovo film di Kechiche scorre piano e diretto, imbastisce tutto il suo cinema precedente, il riferimento alla letteratura francese del Seicento e Settecento, le relazioni rabbiose fra adolescenti, le incomprensioni e le liti, ma senza quella stratificazione che rendeva Cous Cous un capolavoro. Qui il capolavoro si sfiora nuovamente, ma senza che Kechiche forzi il suo film a rappresentare qualcos'altro da quello che semplicemente è, la storia di una ragazza che scopre di amare le donne, che si innamora di una studentessa più grande, che fa del sesso meraviglioso (per lei, e pure per il 99, anzi il 100%, del pubblico maschile eterosesessuale che vedrà il film), che a un certo punto si sente trascurata e allora tradisce, pagadone le conseguenze. Niente stratificazione, niente tensione narrativa. Solo corpi, volti, occhi, mani e piedi, non come tante finestre sull'anima, ma come vita che scorre. Dura tre ore e sette minuti, ma potrebbe durare quanto gli interi capitoli della vita di Adèle, pieno, frontale, delicato e impudico come le scene di sesso, tra le più belle, autentiche e per questo eccitanti che si siano mai viste al cinema. Kechiche fa recitare ogni particolare delle sue attrici meravigliose, tira fuori un miracolo da ogni sguardo o da ogni scopata, fa il cinema con la vita. Fa la cosa più difficile da creare, se sei un artista. E la cosa più bella da vedere, per me anche la più facile, se sei uno spettatore.
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