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venerdì 20 aprile 2012

Colui che scrive

Oggi è uscita la mia rubrica #140cine su Doppiozero. Tra i tweet c'è quello che riguarda Il primo uomo, il film che Gianni Amelio ha tratto dall'ultimo e incompiuto romanzo autobiografico di Albert Camus, ricostruito dalla figlia e pubblicato nel 1994. Un film travagliato e un po' ingessato che si rivela però capace, per quanto in modo forse inconsapevole (anche se spesso l'inconsapevolezza cela l'istinto), di riassumere tutto ciò che impedisce al ben più celebrato Romanzo di una strage di essere ciò che vorrebbe essere, e cioè una riflessione astratta e insieme concreta su una pagina di storia che per noi sarà per sempre cronaca ed evento simbolico. «Colui che scrive non potrà mai essere all'altezza di colui che muore», dice (vado a memoria) un personaggio all'inizio del film citando un articolo del protagonista, uno scrittore algerino di origine francese dietro il quale è facile riconoscere lo stesso Camus. Siamo in Algeria, nel 1957, alla vigilia della guerra civile e questa frase che Amelio fa dire - forse presente già nel romanzo, non saprei - mi ha aperto gli occhi sulla distanza incolmabile che separa il racconto dalla Storia, il romanzo dalla verità, attestando come inevitabile quella perdita di vita che invece il film di Giordana vuole a tutti i costi riscattare. Anche il film di Amelio, che si apre su un cimitero, che racconta di un uomo legato al ricordo del padre mai conosciuto, è un film carico di morte, mosso da un desiderio di riscatto e di redenzione: ma nella sua modestia, nel suo attestare l'impotenza del singolo di fronte alle divisioni in seno all'umanità, pur nella sua voce flebile, è molto più onesto di Romanzo di una strage. Sarà per questo che sembra un film d'altri tempi, nel bene e nel male.

giovedì 12 aprile 2012

Operetta morale di una strage

L'altra sera ho visto con un po' di ritardo Romanzo di una strage. Siccome di parole se ne sono scritte fin troppe, anche se quasi mai di cinema, bensì di storia, giornalismo, verità dei fatti e invenzioni della letteratura - eh sì, signora mia, in Italia ci sono più critici che allenatori - mi vengono in mente due cose. La prima è che l'umana pietas, per quanto comprensibile e in buona fede, non dovrebbe essere presa come strumento di indagine storica, altrimenti si rischiano la parzialità delle ricostruzioni o peggio la loro inconsistenza. Poi, certo, uno dice che la verità è sepolta da decenni di inchieste e di indagini, di condanne e assoluzioni, e allora è inevitabile trasformare la storia in romanzo, ché tanto pure i documenti sono interpretabili e perciò vale tutto, anche la teoria della doppia bomba, quella anarchica e quella fascista, due come tutto ciò che possediamo, dalla macchina alla tv, dall'iPhone al'iPad... Ma se poi solo i morti fanno bella figura, elevandosi oltre la marmaglia istituzional-eversiva per la loro veggenza o per la loro purezza, ché è questo che nel film capita a Moro, Pinelli e Calabresi, allora più che un romanzo, la ricostruzione di una strage diventa un racconto d'agnizione, un'operetta morale dove c'è l'angelo caduto che indica la via offrendosi come vittima sacrificale (Moro), l'uomo del popolo che paga per la sua onestà (Pinelli) e l'eroe borghese che capisce ma sbaglia perché errare è umano e a tutti piacerebbe mollare il lavoro in questura per andare in fabbrichetta col suocero. Insomma, va bene il rispetto dei morti, ma allora perché quei quattordici nomi all'inizio, come se il film fosse nel solco dell'unica verità insindacabile, e cioè la verità della morte, mentre poi tutto il resto è rivisto e corretto sulla base del senno del poi, della tragica fine fatta da uomini che furono protagonisti di quella vicenda e non suoi narratori o precursori?