Oggi è uscito Spring Breakers di
Harmony Korine, che era stato presentazione in
concorso a Venezia e di cui qui sotto riprendo quasi tutto quello che avevo scritto allora. Domani questo pezzo uscirà su Doppiozero, ma io avevo voglia di metterlo qui già oggi. Mi perdoneranno quelli di Doppiozero.
Spring Breakers è una commedia noir coloratissima e in
acido, tirata a lucido e fichetta, su quattro ragazzine del college che passano
in Florida le vacanze di primavera, lo spring
break del titolo, una pausa nel calendario scolastico americano diventata nei
decenni un punto fisso per la cultura adolescenziale americana, un momento di
follia collettiva a base di sesso, alcol, stupefacenti e musica hip hop. Per
arrivarci, alla vacanza dei sogni in quel orribile paradiso di cemento,
piscine, motel e perenne sole a rosso d’uovo che è la Florida, le protagoniste
non guardano in faccia nessuno: derubano armi in pugno un fast food e una volta
sul posto ci prendono gusto, diventando prima le pupe di un gangsta-rap bianco
e poi delle eroine del crimine. Roba da farti alzare dalla sedia per la volgarità e la noia,
oppure da far gridare al miracolo per l’ostentazione pop di tutto l’esaltante
marciume della cultura del divertimento: ma Spring
Breakers è così, chiede di essere amato o odiato, come gli esaltati
studenti della vacanza di primavera è pure lui ubriaco e schizzato, con Korine che
come al solito finge di essere giovane e selvaggio e in realtà gestisce alla
perfezione – in maniera sin troppo consapevole – un’orgia di corpi, colori e
musiche. Spring Breakers è
un catalogo quasi materiale di forme anatomiche femminili in primissimo piano, di
occhioni sgranati, di capelli stirati e tinti, di bikini e tanga fluorescenti, di
bicipiti e patacche da videoclip, di oggetti orribili e pacchiani… Nel tramonto
infinito della Florida, tutto luccica e riverbera in controluce, la bellezza si
fa fotografica e plastica, lo sguardo si incanta allupato per la posa sexy, lo spazio
urbano americano seduce implacabile con le sue scritte al neon e i suoi
riflessi nel cemento bagnato. Tutto già masticato, digerito e risputato, almeno
dalla nascita della MTV Generation in poi: ma questa volta il punto è proprio
questo, il nocciolo che fa di Spring
Breakers un film a suo modo significativo sta lì.
Sembra un videoclip, Spring
Breakers, sembra una patacca come gli oggetti di cui è pieno: e in effetti
lo è. Solo che Korine lo sa, lo fa apposta, e per l’enfasi che ci mette, per la
pesantezza con cui ammorba le sue inquadratura di luce artificiosa, per la
lentezza maestosa con cui muove al rallentatore la macchina da presa, per la
malinconica consapevolezza con cui cerca la spiritualità nel trash, la bellezza
nell’orrore, la verità nell’abbaglio, sembra un Malick sparato a mille, ha la
stessa ridondanza stilistica e lo stesso ritmo ammorbante e ondeggiante, la stessa
voglia di fare cinema che si mangia da sé, si soffoca e si uccide. Solo che,
per l’appunto, Korine lo sa, lo fa apposta, e allora la sua lucida strafottenza
vale più del fragile coraggio spirituale di Malick.
Korine gioca a fare l’Autore, e ci riesce benissimo, prende
tutti per i fondelli e arriva fino in fondo, immerso com’è nella cultura pop e
nell’idea contemporanea (vecchia di decenni, ma ormai diventata norma) della
festa perenne, del divertimento come unica forma di pensiero americano, della luce
fittizia, del colore rosa skocking, del sole che tramonta solo se può diventare
cartolina, come unica lingua dell’immaginario cinematografico.
Korine, come Paul T. Anderson (in fondo siamo sempre lì, se proprio vogliamo trovare un presente al cinema americano), sa che non c'è più scampo al vuoto, sa che non c’è immagine che non nasca e muoia da sola, sa che la cultura musicale e adolescenziale ha finito per mangiarsi tutto, ogni forma di estetica e di sguardo. Dunque si arrende: come Warhol secoli fa (ma il cinema al tempo avevo ancora tanto da dire, era giovane, viveva la sua fase modernista) si abbandona all’immanenza degli oggetti.
Non c’è niente di male, anzi: se la bellezza è perduta,
tanto vale cercarla ovunque. Arrendersi sì, ma solo per ricominciare a cercare,
indagare, rivelare. E per la precisione, Spring
Breakers si arrende, letteralmente, all’«immanenza di Britney Spears», a un
cinema che si ritrova con le sue emozioni e le sue lacrime proprio in quello
stesso delirio pop che asseconda e dal quale si fa sedurre: basta una canzone inutile
e urlacchiata dell’ex stella del pop (Everytime,
dall’album del 2004 In the Zone),
James Franco conciato come un gangsta-rapper coi denti d’argento, una spiaggia
al tramonto, un pianoforte a coda, tre ragazze adoranti in bikini, e la cultura
di massa va in cortocircuito, il sincretismo culturale che mescola alto e
basso, bellezza e oscenità, resta lì sullo schermo a fare bella posa di sé e a
farsi ammirare dallo spettatore impotente. E la cosa funziona, non ci si può
far nulla: la bellezza, oggi, è soprattutto questa emozione cinica e immediata,
un angolo di lacrima che arriva dopo il disincanto dell’ironia.
La cultura pop, almeno per Harmony Korine, è un mostro dalle mille forme che non teme nulla, che si esalta e si svilisce da sé, che si prende tutto e il contrario di tutto, che non va giudicata in termini estetici, ché tanto l’estetica è pure lei compromessa da slavine di colori e curve femminili. E così Spring Breakers, nel momento in cui si arrende alla rivoluzione compiuta del pop, se ne appropria a suo modo, e invece di limitarsi a inseguire studentesse puttanelle, rapper assassini, orge in piscina, fiumi di vodka e piste di coca, battezza da sé le sue icone e i suoi modelli, fa delle sue adolescenti in bikini e passamontagna rosa l’immagine perfetta del femminismo in era Pussy Riot.
L’immagine cinematografica è lì sullo schermo, piatta, abbagliante, stagliata nell’orizzonte: quei colori e quelle forme, mentre corrono su una passerella di legno, sono splendidi e immediati come in una pagina pubblicitaria. La differenza la fa come sempre lo sguardo, cioè il cinema, l’occhio che non giudica, ma si limita a cercare ciò che sta sotto, ciò che resiste alla seduzione: una natica con un filo di cellulite, un polpaccio non troppo slanciato, un viso non così fine come vorrebbe, un brufolo o una guanciotta che tradiscono l’età fragile e indifesa… Perché sarà anche vero che l’immagine è l’unica lingua che ci è rimasta, ma alla fine è pur sempre il corpo l'unico a resisterle.
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