giovedì 17 gennaio 2013

Qualcosa nell'aria

Oggi esce nelle sale italiane Qualcosa nell'aria, che poi sarebbe Après mai, il film sul dopo-'68 con cui Assayas ha raccontato gli anni della sua giovinezza: il titolo italiano fa schifo, ma è la traduzione di quello internazionale, e allora non possiamo farci niente, ce lo teniamo e stiamo buoni, che è già tanto se il film è uscito. Su questo blog ne avevo già scritto da Venezia, poi su Cineforum e qui sotto metto proprio per quello che ho scritto per la rivista, che è più ragionato e meno sporadico (rispetto alla calma e alla tranquillità con cui uno scrive vale ancora quella che McEwan nel suo ultimo romanzo chiama «la tirannia della carta»). Comunque, nonostante come molti altri rimpianga l'Assayas che fu - per me un regista fondamentale, uno che a vent'anni mi aprì gli occhi su come si potevano raccontare il passato, la giovinezza, l'amore, la rabbia, l'amicizia, la malattia - Qualcosa nell'aria resta un grande film, misurato e onesto, fosse anche solo per l'ironia e l'indulgenza con cui Assayas si guarda vivere in quegli anni e perché, mostrando senza orpelli le cagate pensate dette e fatte dalla sinistra di cui faceva parte, ha fatto incazzare un bel po' di anime belle e rigorose, che ovviamente continuano a pensare che là fuori si debba ancora combattare coi sampietrini. In ogni caso, ecco il pezzo.
Fare i conti con il passato, quando una stagione della vita è accettata nella sua interezza, è un atto coraggioso e in controtendenza. Giusto perché come frase suona bene, ci piace pensare che il passato sia una terra straniera (un po’ come il paese che non è mai per vecchi), ma in realtà, dovunque lo si prenda e lo si osservi, per la nostra epoca il passato è una terra conosciuta, esplorata e continuamente presente.

In Après mai, invece, l’eterno presente storico in cui abbiamo scelto di vivere non è osservato da una prospettiva contemporanea, ma si apre alla raffigurazione di una storia personale data come compiuta, come passato, e in grado di farsi racconto e diventare perciò materia narrativa pura. Il viaggio a ritroso di Assayas, la discesa in un tempo privato e insieme collettivo, attraversa liberamente la sua autobiografia: l’adolescenza all’inizio degli anni ’70 alla periferia di Parigi, la militanza nell’estrema sinistra, gli scontri con la polizia, la passione per la pittura, i dubbi sull’ideologia maoista, un amore, forse due, i viaggi, i ritorni, i fallimenti, e poi il cinema, la scoperta del situazionismo, Debord e tutto quello che sarebbe venuto dopo, la critica e la regia…
Assayas non cerca giustificazioni, non fa lezioni: il suo film è narrato con una tale passione e una tale onestà verso una generazione e le sue illusioni da mettersi a nudo di fronte a ogni giudizio. Rispetto allo sguardo a fior di pelle del suo vero film sugli anni ‘70, il magnifico L’eau froide, dove Assayas ci metteva la pancia e la rabbia laddove ora ci mette il cuore e la testa, Après mai è didascalico e lineare, capace di includere gli umori e le idee di un’epoca in un racconto composito e controllato. Non per questo è meno vero o complesso: la maturità espressiva del regista sembra aver infatti giovato del formato televisivo di Carlos, perdendo forse in urgenza ed emotività, ma guadagnando in chiarezza e padronanza narrativa.

La lucidità con cui Assayas giudica la propria esperienza è la stessa con cui, in modo doloroso ma forse necessario, cerca di smarcarsi dal proprio cinema, trovando un distanza di sguardo che al di là di alcune cadute (una brutta sequenza in una località di mare italiana) rende in pieno lo sforzo di tralasciare il più possibile i legami personali e restituire la complessità del tempo passato, con le sue durate e le sue distanze, con le scelte di un gruppo di personaggi che non fanno parte del solito affresco a più voci, ma di un mondo vivente e lontano in cui ciascuno ha percorso un cammino e talvolta lo ha incrociato con quello degli altri.

Après mai non è dentro la storia, ma ne sta a lato, per raccontarla e rispettarla. Ciò che più colpisce del suo tenue racconto giusto della giovinezza è la fiera ammissione di un’idea di mondo e di vita. Se i suoi personaggi leggono, dipingono, disegnano, fanno cinema o ne parlano, se provano insomma a vivere secondo un’ideale di libertà negli anni ’70 rivoluzionario e oggigiorno persino scontato, non è per distinguersi o modellare la figura del parigino bobo, ma perché leggere, dipingere, disegnare, fare cinema o parlarne, viaggiare e talvolta farsi di droga, è sì bello, divertente e un po’ da fattoni, ma richiede anche passione, impegno, coraggio, voglia di sbagliare e pure di abbandonare per strada qualche amore. Nel nome, secondo Assayas, di una scelta non per la rivoluzione, ma per se stessi, per tutto ciò che di buono e di giusto può scaturire da un’epoca e diventare tesoro personale, oltre l’ideologia e la politica.

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