mercoledì 25 luglio 2012

No, la frase che contiene il titolo no

In questi giorni per lavoro sto vedendo molti film, tra i quali diversi italiani. A volte, quelli italiani, sono diretti da registi importanti, o quanto meno affermati ed emergenti, gente al primo, massimo al terzo film, che si appresta a passare attraverso la classica trafila di festival grandi e festival piccoli, distribuzioni in sala micragnose e uscite in dvd sottovoce. Sovente i film di questi registi sono delle delusioni, in certi casi delle sorprese, quasi sempre prodotti che valgono qualcosa se comparati all'insieme della produzione italiana (che come tutte le produzioni nazionali ha un livellamento verso il basso e alcune decisive impennate), ma assai meno meritevoli se presi singolarmente. Non è una questione di pregiudizi o pigrizia, avercela con il cinema italiano: spesso è una questione culturale. Ogni volta che vedo un film italiano che non sia diretto da un grande autore (ne abbiamo anche noi, figuriamoci, mica voglio fare quello che l'erba del vicino è sempre più verde), mi chiedo se sarei meno severo se fosse, che ne so, francese o portoghese. Perché con il cinema italiano, come si fa con gli amici, mi accorgo di essere spietato e insieme indulgente, felice di riconoscere luoghi, facce e abitudini, ma annoiato da questo processo emotivo, come se sfogliassi per l'ennesima un album di famiglia e fossi stanco delle solite vecchie foto dei soliti vecchi commenti.

Il problema con il cinema italiano medio d'autore, spesso peggiore di quello commerciale e zotico, sta nella somma zero delle emozioni che provoca, nell'estetica anestetizzata da un mix letale di ottime intenzioni, pessime idee e mediocri risultati, nel piglio didascalico con cui sono scritte le sceneggiature (un classico è mettere in bocca a un personaggio una frase che contiene il titolo del film o sparare pipponi per dire allo spettatore quello che i personaggi sanno già e sentono invece ripetere), come se registi e sceneggiatori, nel loro sforzo di essere professionisti che hanno studiato e devono applicare i dettami della Holden, non credessero abbastanza nei corpi, nelle storie, nei luoghi, nei movimenti di macchina, nel cinema insomma, e sentissero il bisogno di spiegare, sottolineare, spiattellare il senso del loro film, le motivazioni anche personali che lo hanno generato, il famigerato significato di tutta quella musica, di tutti quegli stili, di tutte quegli orpelli spesso inutili, che ovviamente vengono utilizzati perché altrimenti il loro lavoro non starebbe in piedi o non reggerebbe l'ambizione iniziale. In definitiva, nel cinema italiano si crede pochissimo in quel che si fa e nel 99% delle volte si finisce per fare troppo.

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