E' uscita come ogni settimana la rubrica #140cine su Doppiozero. In uscita (anche se un paio di titoli sono su già da mercoledì) due film francesi, uno pessimo e fighetto l'altro vecchio di due anni ma con il fresco premio Oscar Jean Dujardin e allora la distribuzione spera di sfruttarne la notorietà, la riedizione del Titanic in 3D, tanto per inserire anche la fine degli anni '90 nella terra dell'abbondanza nostalgica, la prima delle due Biancaneve in arrivo nel 2012, il solito americano cagatone e due commediole italiane, una inutile del fratello dell'inutile Virzì, l'altra orribile anche solo a vedere il trailer. La rubrica con i tweet si trova qui.
In realtà la vera cosa che voglio consigliare per il weekend è un testo inedito di Aleksandar Hemon pubblicato oggi dal New Yorker. Hemon è uno scrittore bosniaco di origine ucraina, nato e cresciuto a Sarajevo, che nel 1992, quando non aveva ancora trent'anni, andò a Chicago per rimanervi qualche mese e fu poi costretto a fermarsi per molto più tempo poiché nel frattempo cominciò l'assedio della sua città da parte delle forze serbo-bosniache. Finì che decise di fermarsi per sempre a Chicago, di diventare americano e scrivere uno dei romanzi più belli degli ultimi anni Il progetto Lazarus, che non a caso parla di sradicamento e di impossibilità di tornare a casa e lo fa con una lingua feroce e insieme dissacrante, dolorosa e rabbiosa. Oggi, invece, nel ricordo dei vent'anni dall'inizio dell'assedio, Hemon ha fatto ritorno a Sarajevo e ha raccontato le sue riflessioni al New Yorker. Nella didascalia al disegno a fianco del testo c'è scritta una cosa bellissima: "Volevo da Chicago quello che ho avuto da Sarajevo: una geografia dell'anima". Da leggere, insomma.
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