Michele Serra ha parlato male di Twitter. Ha scritto che gli fa schifo. Un sacco di gente s'è incazzata. Così tanto che Repubblica ha messo su un boxino in cui Serra rispiega la sua posizione in un video (perché, poi, un video debba essere più chiaro di un articolo non saprei...). Qualche giorno fa Jonathan Franzen ha parlato male di Facebook, e di rimando pure di Twitter. In generale dei social network, che a lui sembrano brutti e inutili. Parese suo. Facebook delle parole di Franzen non se ne è nemmeno accorto: essendo un mezzo autenticamente popolare non ha bisogno di erigersi in propria difesa. Due o tre anni fa sarebbe andata diversamente, ma da quando abbiamo saputo quanto Zuckerberg possa essere stronzo, nessuno più fiata. Si posta e basta. Con Twitter invece no. Twitter è elitario, esclusivo, mette in vetrina rispetto al mondo, la regola è far vedere di seguire pochissima gente ed essere seguiti da una moltitudine. Twitter fa bene, dicono. Per cui non va toccato. Twitter siamo noi e nessuno si avvicini senza saperlo. Se Serra ne parla male, in tanti se la legano al dito e lo sbertucciano. Questo articolo di Andrea Scanzi sul Fatto quotidiano, con il suo ridicolo miscuglio di superficialità e populismo (davvero c'è ancora qualcuno che crede alla sinistra in velluto che osserva il mondo dal salotto foderato con l'opera omnia di Kierkegaard?), è la radiografia perfetta di cosa sia Twitter: una gara a chi dimostra più furbizia, demagogia culturale, purezza di spirito. La differenza sta nel fatto che Scanzi ha scritto un tweet di 3800 battute e non 140. La modalità invece è la stessa. Si parte dall'idea che solo una ristretta cerchia di eruditi delle dita sappia condensare concetti in poche parole e si prosegue accusando i non adepti di superficialità, invidia, trombonaggine, elitarismo erudito. Eh già, perché sono sempre gli altri a non capire la portata popolare delle rivoluzioni. In fondo siamo un po' tutti egiziani, veniamo tutti da piazza Tahrir.
Sul Post Gipi si è giustamente chiesto perché uno dovrebbe incazzarsi se gli toccano Twitter. In teoria, scrive, dovrebbe essere come un oggetto qualsiasi, come un telefono o un freno a mano. E nessuno si offende se io qui sopra scrivo che il Nokia di mia moglie è una merda. Eppure con Twitter sì. E, ripeto, tre anni fa con Facebook sarebbe stato uguale.
Twitter oggi è la piazza, il cubo della discoteca, la gabbia dei leoni dove molti hanno scelto di esibirsi. A tutti piace che i follower stiano lì fuori ad applaudire. E se poi si arriva per primi sulle cose, se si fa il liveblogging della trasmissione scaciona ma popolare, allora è proprio il massimo della democrazia oggi possibile. Dicono loro.
Se però, poi, arriva qualcuno a parlarne male, quello che dice non è semplicemente un'opinione. E' un'accusa, un dito nell'occhio, un calcio nelle palle. E' come se quel qualcuno, invece di applaudire, tirasse dritto per la sua strada, senza fermarsi nella piazza, nella discoteca, davanti la gabbia dei leoni. E non sia mai, quindi, che l'inseguito possa un giorno ritrovarsi a essere inseguitore. Questo proprio no, specie se gli inseguiti sono dei signor nessuno.
Twitter: per l'uomo che non deve seguire mai.
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