domenica 4 settembre 2011

L'oratore

Ieri sera ho visto nella sezione Orizzonti una film delle isole Samoa, credo il primo della mia vita. Una di quelle cose che si possono vedere solo nei festival e che in un certo senso giustifica la presenza in questo posto (a parte vedere in lingua originale i film che dopo due giorni arrivano doppiati nelle sale). Il film, che si chiama O le Tulafale, è molto interessante e a tratti commovente. Quelli di Filmidee mi hanno chiesto di buttare giù qualche riga. E qui sotto etto il risultato del mio sforzo mentale (non esagerato!).

Tristi tropici li chiamava Levi-Strauss, società tribali rette da rituali svuotati di senso e proprio per questo dotate di un indispensabile sistema di autoregolazione. Mondi fondati su immagini prive di fondamento, su universi lontani forse inesistenti, che forniscono però indispensabili sistemi di leggi e credenze per gli uomini di ogni generazione.

Una finzione, insomma, su cui è facile costruire un racconto che dei miti di un popolo si libera con ironia e delicatezza. È il caso del film delle isola Samoa O le Tulafale, diretto dall’esordiente Tusi Tamasese e attraversato come prevedibile da un’iconografia nota e senza tempo: volti di donne guaguinane, natura lussureggiante, palafitte ampie e vuote, piogge violentissime, partite di rugby in campi selvaggi, consigli politici all’aperto e vagamente comici. Una finzione nella finzione, o meglio ancora il racconto – anche nelle “ingenue” terre agli antipodi – di un dislocamento temporale e spaziale. Perché nei tropici tristi di oggi la modernità si insinua in modo evidente, i viaggi si fanno con il fuoristrada, sugli autobus si ascolta la techno e gli accordi tra clan si fanno a colpi di bustarelle e scatole di aringhe. Il contenuto si è adattato al tempo, ma la confezione è rimasta intatta: le cerimonie del potere, i riti di espiazione, la difesa del clan sono passaggi obbligati di una società mutata, ma disperatamente ancorata al proprio retaggio mitico.


Il resto sono lotte, queste sì universali e senza tempo, tra individui; lotte di sentimenti e di onore, di rispetto e dignità. Lotte raccontate da una prospettiva inusuale, “altra”, più bassa di trenta centimetri del normale e più dura della terra da scavare. La prospettiva, cioè, di un nano che si rifiuta di spostare la tomba di famiglia per far spazio alle coltivazioni, che per questo si becca botte e insulti e che quando la famiglia della moglie defunta arriva a rubargli il cadavere della donna, s’incazza e se la va a riprendere. In che modo lo spiega il titolo del film, che significa l’oratore, e che giustifica il meccanismo di attesa e sospensione su cui è costruito il racconto, tra una prima parte di osservazione e una seconda di dramma commovente, concluso da uno straordinario saggio di cinema umanista. Un’attesa che vale l’intero film e che apre a una sequenza finale indimenticabile, tanto misurata nello stile quanto appassionata nelle parole.

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