Oggi esce nelle sale questo film straordinario e perfetto. Ne ho già scritto da Venezia, ma rimetto qui sotto una mia recensione, leggermente cambiata da quella di due settimane fa. La cosa bella, comunque, è che Polanski continua a dimostrare di essere un gigante.
Dopo L’uomo nell’ombra Roman Polanski torna con Carnage a fare una delle cose che gli riescono meglio: là era il giallo alla Hitchcock, qui è il cinema da camera, genere d’impostazione teatrale che per il regista di La morte e la fanciulla diventa nuovamente un banco di prova per il suo straordinario talento nella messinscena cinematografica.
Carnage, tratto dalla pièce Il dio della carneficina di Yasmina Reza, è un gioco al massacro condotto nel chiuso di un appartamento di Brooklyn, con due coppie benestanti che si ritrovano per risolvere una lite scoppiata tra i loro figli e che finiscono con il riversarsi addosso fiumi di parole e cattiverie. Un meccanismo forse prevedibile per come raffigura un gruppo di borghesi superficiali e ipocriti (e incapaci di uscire dal set, come nell’Angelo sterminatore di Buñuel), ma al tempo stesso implacabile per come inscena il destino della società occidentale, aggrovigliata attorno al desiderio di comprendere il mondo con le parole e destinata per questo a ripiegarsi fatalmente su se stessa.
Polanski non corre, costruisce lentamente un muro di ovvietà e gentilezze e lo erode dall’interno, portando a galla le tensioni tra le due coppie, una altoborghese e schizzinosa (Christopher Waltz e Kate Winslet), l’altra liberal e ingenua (Jodie Foster e John C. Reilly), attraverso un uso classico del campo e controcampo. Il suo vero lavoro è sulla messinscena, sullo spazio scenico e sul tempo del montaggio, sul movimento degli attori e sugli oggetti che definiscono i loro personaggi, da un cellulare a un libro, da una bottiglia di whisky a un mazzo di tulipani.
Grazie così all’abilità di Polanski nel rendere in termini visivi uno scontro fatto unicamente di parole, Carnage diventa un saggio di cinema puro: un teorema che rimanda ancora a Hitchcock per la sua precisione e che diventa puramente “polanskiano” nel momento in cui inscena un processo di imprigionamento non solo dei personaggi, ma delle immagini stesse.
Perché le immagini, sembra dire il regista, sono come le parole: richiedono responsabilità, controllo, attenzione. E se tutto, fin dalla pièce, nasce da un parola sbagliata (“armed”, armato, a proposito di un ragazzino che ha ferito un compagno con un bastone), allora il film stesso è un errore, poiché cerca di porre rimedio a una ferita affastellando inquadrature su inquadrature, scene su scene, ma ottiene l’effetto di allestire un geometrico, inesorabile rito di distruzione.
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