A sorpresa e in base a strategie distributive un po' suicide, nel weekend scorso, a fine stagione cioè, sono usciti sugli schermi italiani due film decisamente importanti, uno abbastanza vecchio e l'altro più nuovo ma difficile e non proprio adatto a un pubblico da sabato sera. Il primo, di cui parlo oggi, è The Hunter di Rafi Pitts, presentato in concorso a Berlino nel 2010 e poi passato al Torino Film Festival, uno dei film più folgoranti e inattesi degli ultimi anni, lontano migliaia di miglia dall'idea superficiale di cinema iraniano, una storia in tre parti e in due luoghi, prima il cemento di Teheran poi una foresta di montagna e i suoi boschi infiniti, tra incidenti mortali, vendetta contro il destino, vendetta contro l'uomo, violenza cieca, fuga, inseguimento, ribaltamento dei ruoli di forza, individuo contro società, cultura contro natura e solitudine, una geografia intera di solitudini che non possono non rimandare a una rappresentazione critica dell'attuale società iraniana. Un'odissea fisica e personale, quella messa in scena da The Hunter, che nella prima parte ricorda i noir in cemento di Don Siegel, la disperazione esistenziale del cinema urbano anni '70, e poi nella seconda parte, quando proprio non te la aspetti, segno di un cinema senza frontieri narrative e stilistiche, si apre alle derive fisiche dei documentari herzoghiani, sfiorando l'abisso delle sue riflessioni apocalittiche vicino all'assurdo: un mezzo capolavoro che, per quanto da tempo ampiamente scovabile in rete, meritava la distribuzione nelle sale.
L'altro film importante uscito un po' a sorprensa è Venere nera di Kechiche, di cui avevo già scritto qui e qui nel settembre scorso da Venezia, e del quale scriverò domani.
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