mercoledì 4 maggio 2011

Helplessness Blues

Lunedì è uscito ufficialmente Helplessness Blues, il nuovo album dei Fleet Foxes, gruppo di ragazzoni provenienti da Seattle che ha riportato in auge la moda delle barbe lunghe e delle camicie a quadrettoni, fino a qualche anno fa esclusiva del solo unabomber. L'album arriva a tre anni di distanza dal debutto della band, che si chiamava pure lui Fleet Foxes e a suo tempo era stato salutato da più parti come un capolavoro, il ritorno minimal e intellettuale del folk rock all'americana, una musica gioiosa ed evocativa, con i coretti e le chitarre strimpellate, che poteva evocare le canzoni pop dei film anni '60  (tipo Un uomo da marciapiede o Lo spaventapsseri) e a me, per via di quel quadro di Bruegel in copertina, ha sempre fatto pensare a villaggi con case dai tetti di paglia e sagre della porchetta. Roba di classe, comunque, ma anche un po' trita: solo rivista e corretta dall'intimismo indie e da un'innegabile bravura compositiva. Ecco, insomma, Helplessness Blues non si discosta molto dal primo lavoro dei Fleet Foxes, ed è giusto così essendo solo il loro secondo, ma forse per Robin Pecknold e compagni (che tra l'altro somigliano tutti a David Gilmour negli anni d'oro) il fatto di essere stati considerati dei modelli fin dall'esordio non ha giovato troppo. Per quel mi riguarda il nuovo album è più bello, più secco e meno pastorale: il problema, però, è che nel frattempo i Fleet Foxes hanno fatto scuola loro malgrado e tra milioni di barbuti indie folk ora che sono tornati sembrano gli ultimi arrivati.

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