Oggi si è saputo dal Wall Street Journal che la MGM, una delle principali major di Hollywood, quella del leone che tutti conoscono e tutti hanno sentito ruggire, una delle mitiche sette sorelle del cinema, insieme con Columbia, Walt Disney-Touchstone, 20th Century Fox, Paramount, Universal e Warner Bros responsabile più di ogni altro della gentile violazione del nostro immaginario, l'acronimo nato dalla fusione negli anni '20 delle società di tre dei più spietati e geniali e volgari e arraffoni tycoon americani (Richard A. Rowland della Metro Pictures Corporation, Samuel Goldwyn della Goldwyn Pictures Corporation e Louis B. Mayer della Louis B. Mayer Pictures), la gloriosa MGM, insomma, ha dichiarato bancarotta e presentato il piano di ristrutturazione. Dunque, il leone non c'è più. E se tornerà non sarà più lo stesso di prima. Non sembra vero, a pensarci, e infatti a quanto pare non sembra nemmeno così traumatico come per esempio fu per la povera United Artists affossata dai Cancelli del cielo (il Wall Street Journal spiega perché, ma io di finanza non ci capisco un tubo). Però fa effetto lo stesso, dà l'idea di un pezzo di XX secolo che se ne va, di una cosa che fino all'altro giorno era presente e ora è passato, con quel ruggito rimasto sempre intatto e da domani pronto a tornare con un'aria vintage, in quanto memoria di qualcosa che è stato, come il 90% delle icone di questo Duemila.
Oggi perciò mi va di ricordare la MGM dei tempi d'oro, quella che solo a vedere cinque secondi di film hai già la serenità del cinema di un tempo, l'ammirazione per l'abilità artigianale dei veri artefici dell'arte più popolare del nostro tempo. E mi ricordo del regista che più di ogni altro è stato simbolo della MGM, Vincente Minnelli, che sotto quel leone ha girato praticamente tutti i suoi trenta film e passa e che in questa scena ha realizzato una delle cose più stupefacenti che io ricordi di aver mai visto al cinema (l'ho trovata solo in tedesco, ma è quasi tutta muta).
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