Animal Kingdom, dunque. Un film australiano passato al Sundance lo scorso gennaio, ripreso da Roma e uscito nelle sale subito dopo (in quelle metropolitane, chiaro, ché in provincia non lo si vedrà nemmeno scaricato). La trama è quella di sempre: un ragazzo non ancora maggiorenne resta senza madre e viene accolto dalla nonna e dagli zii, che vivono come un clan tribale e sono tutti criminali dalla faccia losca ma borghese. Il ragazzo entra nelle trame della famiglia e quando cominciano ad arrivare i morti e i tradimenti e i discorsi da pelle d'oca non sa più cosa fare, non sa, cioè, se arrendersi al richiamo animalesco delle radici oppure opporsi ma condannarsi all'infelicità eterna. La locandina parla di "risposta australiana a Scorsese" e in molti hanno scritto giustamente che forse dovrebbe essere Scorsese a riprendere ispirazione da film come questi, che naturalmente sono girati come li girava lui vent'anni fa e che devono al cinema americano la mitologia dello spazio familiare come scena privilegiata della tragedia. Animal Kingdom non dice nulla di nuovo, ma conferma come il cinema possa sopravvivere in eterno a se stesso, ripetendo schemi inesauribili (l'uso del rallentatore è sempre una figata, se lo usi poco e al momento giusto) e sottraendone altri: qui, per esempio, tutti gli snodi fondamentali della trama, specie nella seconda parte, sono lasciati fuori campo, si percepiscono solo dalle reazioni dei personaggi.
Un film costruito, dunque, ma alla perfezione: teso, straziante e straziato, che non prende solo da Scorsese ma pure da Mann (la sequenza del viaggio del testimone di giustizia è uguale a quella di Insider) e da Eastwood, con il discorso della madre-nonna-padrona al poliziotto corrotto (il momento più bello del film) che ricorda per lucidità e freddezza quello della moglie di Sean Penn in Mystic River, a sua volta ispirato ai monologhi di Lady Macbeth. Gran film artigianale e solidissimo, insomma, prezioso perché capace di riconciliare con l'immaginario del cinema contemporaneo.
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