giovedì 9 settembre 2010

Venezia 67 - Noi credevamo

Dopo la visione di Noi credevamo di Martone, dopo le tre ore e ventiquattro minuti sorbite alle 8.30 di ieri, sono uscito con l'orgogliosa idea che il Risorgimento è stato un tradimento storico. Avrei voluto essere documentato per dire che si tratta della tesi più ricorrente, in fondo è anche ciò che afferma Visconti in Senso, ma purtroppo non sono così ferrato come vorrei. Per fortuna, però, il film evita di dare troppi riferimenti geografici o temporali e schiva abilmente (e pure un po' furbescamente) qualsiasi forma di didascalicità: non è una lezione di storia, ma semmai di moralità della storia. Se vale - e vale - lo deve al controllo con cui racconta il Risorgimento attraverso vicende che sono prima di tutto umane e poi storiche.


Solo così, infatti, la tesi del tradimento ha valore: solo considerando, da un lato, la tragedia personale di chi credette e venne ucciso e dall'altro il fallimento di quelle stesse posizioni, come se nell'espressione del titolo (che è anche la battuta di chiusura) ci fosse un'implicita ammissione di colpa, o quanto meno di errore. "Noi credevamo, e ci sbagliavamo". Ci sbagliavamo a credere, a fidarci, a resistere.

Natuaralmente Martone racconta il passato per proiettarlo sul presente, e sebbene nel suo sguardo non ci sia la stessa sofferenza di Larrain, la continua, lacerante riflessione sulla violenza della storia, sull'uccisione di Salvator Allende, il suo film monumentale arriva laddove si sperava arrivasse. Al cuore, cioè, di quella doppia radice che divide da sempre la nostra cultura e che porta all'insanabile scontro tra l'idea e la sua realizzazione, tra l'ideologia e il calcolo, tra la Repubblica e la Monarchia, al tempo dell'unità d'Italia, tra la resistenza e il compromesso, ottant'anni dopo. A pensarci bene, la sinistra italiana è ancora incagliata lì, in quella radice. Noi crediamo, certo, ma ogni volta ci ritroviamo a dover ricominciare da zero e ad ammettere di aver creduto invano.

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