
Il
New York Times ha appena
annunciato la morte di
Arthur Penn, a 88 anni. Un altro che se ne va; non giovane, per carità, ma è pur sempre un altro. Anche se sono anni che non rivedo un suo film, Penn rimane uno dei miei padri cinematografici - e di certo non sono il solo. Qui sotto metto il link a quella che credo sia la sua scena più famosa, da
Gangster Story, e a memoria, così, di getto, mi vengono in mente l'uccisione di Marlon Brando in
Missouri, i dialoghi tra Hackman e la moglie in
Bersaglio di notte, le botte che si prende ancora Brando in
La caccia, forse il film più bello di Penn, il senso dell'assurdo che attraversa
Gli amici di Georgia e quello del comico che rende immortale un western bislacco come
Piccolo grande uomo. Penn è stato una figura a cavallo tra la fine e la rinascita di Hollywood, non ha forse raccolto quello che si meritava, visto che a metà degli anni 80 era già un regista finito, ma ha fortemente influenzato (e anticipato) la generazione della New Hollywood che sarebbe venuta qualche anno dopo di lui. Penn era un esistenzialista indeciso tra ironia e disperazione, tra mito e dissacrazione, simbolo di un cinema scomparso che oggi esiste solo più come nostalgia o modello perduto: ecco perché spiace sapere che se n'è andato.
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