giovedì 16 settembre 2010

Che ci stiamo a fare qui?

Sul numero di Cineforum di questo mese c'è uno speciale sui fallimenti d'autore, in cui Alberto Pezzotta, uno dei migliori critici in circolazione, firma un bel saggio sulla crisi della critica e la fine degli autori, un argomento che qui sopra compare sovente e che in generale - specie dopo la polemica Muller-Mereghetti post Venezia (vedi qui e qui) - è oggi il cardine attorno a cui ruota non tanto la sopravvivenza del cinema (ché quello va avanti finché fa guadagnare qualcuno) quanto la percezione che noi ne abbiamo. Pezzotta parte dalla consapevolezza che almeno due autori esistano ancora: il filippino Lav Diaz e l'iraniano Amir Naderi, due registi che negli ultimi anni - e Naderi anche prima - hanno realizzato alcune delle opere più complesse e mature del cinema contemporaneo. Eppure, professionisti del settore a parte, nessuno ha la più pallida idea di chi siano. Non esattamente come anni fa succedeva, quando Tarkovskij, Bergman o Wenders facevano drizzare i capelli alle signore dei cineforum, ma i loro lavori, o quanto meno i loro nomi, erano sulla bocca di tutti.

Scrive Pezzotta:
"La critica dovrebbe aiutare a far sì che un autore incida nella cultura. Solo che nessuno, com'è noto, ascolta più la critica. Non è solo una mancanza di spazio, potere, prestigio, eccetera. Manca un linguaggio condiviso e verificabile. (...) Se la critica parla di un autore, la qualità delle argomentazioni non basta: perché le buone argomentazioni non esistono più. Vale ancora il criterio dell'innovazione formale? (...) E quello dell'incidenza politica? Meglio tacere. Siamo nell'era postmoderna, tutto vale tutto, chiunque può proclamare autore chiunque, mettere sullo stesso piano Spielberg e Sembène, ed essere ugualmente attendibile".
"E poi la critica, in realtà, non parla di Naderi o di Lav Diaz: semplicemente, non ha tempo, ha altro a cui pensare. Se ne riempiono la bocca, ben che vada, i frequentatori dei festival duri e puri (...) che, se hanno capito come girano le cose, da grandi sognano di diventare non critici ma direttori di festival, e allora imporre al mondo (ma che mondo) il loro gusto. E tutto finisce lì: in un orticello asfittico in cui l'investimento identitario, la ricerca dell'esclusiva e lo sfoggio della scoperta creano cortocircuiti mefitici. La colpa non è certo degli autori in questione. (...) Ma il cinema intorno a loro è cambiato, e gli autori non servono più, se non a promuovere il prestigio di chi li scopre".
E ancora:
(...) al di fuori di questo piccolo mondo, che modo ha un autore di incidere nella cultura e nella società che lo circonda? (...) Ma che autore è quello che filma per un pubblico così ristretto? Si dirà che la mancanza di pubblico è caratteristica di tante arti, che tanti scrittori sono rimasti e rimangono senza lettori, ma ciò non diminuisce il valore, la necessità della loro opera. Benissimo, ma il cinema è sempre stato un'arte di un altro tipo, un'arte a forte incidenza sociale e ricaduta culturale, un'arte che ha lottato contro la censura, che ha affiancato o combattuto le ideologie. Il cinema, nel Novecento, ha davvero contribuito a cambiare il mondo. O almeno l'arte. Il fatto che autori come Lav Diaz siano oggi privi di pubblico, di contesto e di critica, mostra come il cinema vada verso la museificazione. Lav Diaz come Peter Kubelka: qualcosa di innocuo e di decorativo, di privato e non più sociale, da esibire in un museo, per pochi eletti, e di cui sostanzialmente non importa un accidente a nessuno. 
(Alberto Pezzotta, La critica e il fallimento degli autori, Cineforum 496, pp. 48-53) 
Che altro dire? Niente. Ineccepibile, direi.

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