mercoledì 16 giugno 2010

Requiem for a dream

Martedì sera, ore 23.20 circa, Rai Storia, canale del digitale terrestre. In onda immagini lontane nel tempo: primi piani stretti su un gruppo di ragazzini, fuori campo la voce di un intervistatore. Rimango ipnotizzato, mi colpisce la totale assenza di controcampi, solo lunghi piani, quasi niente stacchi, a inquadrare i ragazzi e mai il loro interlocutore. Dopo un po' arriva la scritta nel sottopancia: I ragazzi di quartiere di Sergio Ariotti e Gianni Serra, 1979. Trentuno anni fa. Continuo a guardare, senza fiatare, io e quelli che guardano la tv con me, tutti coetanei, tutti commossi dai volti, dalle parole e dai sorrisi dei protagonisti del documentario, otto ragazzi di un quartiere della Torino povera e malfamata.

Mai negli ultimi anni la tv mi ha colpito come ieri sera, lasciandomi interdetto per la sua potenza emotiva e per il suo linguaggio elementare. Quelle immagini così lunghe, così piatte, così prive di qualsiasi forzatura estetica, raccontavano storie che i montaggi frenetici, le telecamere sbilenche, gli inserti musicali, le parole fuori campo e tutto ciò che la tv si è inventata per non annoiare il pubblico non riusciranno mai a raccontare.

Non penso che tutta la tv dovrebbe essere di ricerca o di indagine sociologica o politica, il cazzeggio è sacrosanto, ci mancherebbe, ma il linguaggio ha le sue regole, l'emozione dello sguardo pure, e quello che ho visto ieri sera ne rispettava alcune (l'attesa, la pazienza, il valore del silenzio) che la tv di oggi non si può più permettere. O forse non sa più come usare.

Sarebbe bello se non fosse stato solo un sogno televisivo. Un sogno reale, certo, ma pur sempre un sogno... 



1 commento:

  1. Quando si parla di naturalezza, quando si parla di colpire in modo immediato lo stomaco e le emozioni dei ricordi: ecco quello che è successo a me, vedendo quei volti e quelle immagini. Ho ripensato tutta la sera che quei tempi, quei ritmi di conversazione, quei silenzi, quei sorrisi imbarazzati erano qualcosa che avevamo anche noi, che facevano parte del nostro istinto, del nostro essere ragazzini e adolescenti seppure di un'epoca immediatamente successiva alla loro. E facevano parte di noi anche in quanto esseri umani. Chissà che uomini sono oggi quei ragazzini. Chissà se sono usciti dalla periferia oppure se la loro vita è stata ingoiata in terribili tunnel. Spero di non saperlo perchè se a qualcuno della televisione di oggi venisse in mente di andarli a cercare...ecco, arriverebbero i ritmi serrati, le musiche di sottofondo, i flash accecanti e la banalità di un grottesco presente che nessuno di quei ragazzini avrebbe immaginato nella peggiore delle ipotesi di futuro. Forse.
    Mi rendo conto che a colpirmi è stata l'umanità del tutto, la semplicità dei gesti e delle parole: mi sono sentito parte di quei discorsi perchè li ho sentiti anche io, nella mia fanciullezza in periferia. Non sembrava televisione, o meglio sì, lo era: ma era quella televisione che se ti diceva che c'era questa realtà tu potevi anche crederle. Ieri ci ho creduto. Beppe

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