L'altro giorno si è saputo che il Festival di Cannes sarà aperto dal nuovo Robin Hood di Ridley Scott. La notizia mi ha fatto pensare alla pratica hollywoodiana di raccontare sempre le stesse storie e rifare gli stessi film. Una cosa che esiste da sempre, visto che molti film del passato che conosciamo bene spesso sono la seconda o terza versione di una storia (Prima pagina o Magnifica ossessione). Ultimamente un remake riuscito è Brothers: non perché sia un bel film (non lo è), ma perché riassume un po' di cose che quando parliamo di cinema classico ci piacciono.
È un melodramma, parla della famiglia americana e l’ha diretto un regista europeo immigrato negli Stati Uniti e impegnato a riflettere sui meccanismi della società che l’ha accolto. Come Murnau, Renoir, Wilder, Ophüls, Lang, Sirk.
Sheridan, che è irlandese, già con In America ha ripercorso il tormento e l’estasi dello sradicamento, l’euforia d'aderire al sogno americano e la frustrazione d'esserne esclusi. Brothers è un altro passaggio della sua riflessione sull’ideologia americana, o meglio sull’idea che il suo paese d’adozione ha di se stesso. Rispetto a Non desiderare la donna d’altri, il film di Susanne Bier di cui è il remake, non cambia quasi nulla. A parte l’ambientazione. Ma è l’aspetto decisivo, la dimostrazione che il cinema americano, anche quando è diretto da uno “straniero”, sa riappropriarsi di qualsiasi storia, forma o iconografia. Nel momento del passaggio, la metamorfosi è già completata, il film originale non esiste più. Esistono solo più personaggi, figure, ambienti e sentimenti che, nel contesto produttivo hollywoodiano e negli ambienti del realtà americana, rimandano a storie, situazioni e valori di un sistema spettacolare che non ha mai smesso di costruire la propria mitologia. Anzi, di imporre la propria mitologia.
Film come Brothers e sicuramente l'inutilissimo Robin Hood sono la dimostrazione che il cinema hollywoodiano continua a essere la stessa cosa di settanta, sessanta anni fa: resta da decidere se sia un bene o un male.
Forse non è né un bene né un male, ma solo una qualità del cinema americano di cui bisogna prendere atto. Ci ho messo anni a decidermi a vedere la versione americana di "The Ring", infantilmente inorridito dall'operazione com'ero... per poi accorgermi che Verbinsky aveva innegabilmente fatto un buon lavoro di traduzione, e che il maggior pregio del suo film stava proprio nella perfetta americanizzazione dell'originale giapponese, divenuto un horror hollywoodiano a tutti gli effetti. Nel cinema giapponese, in cui vige uno spiccato gusto per la variazione sul tema, è da sempre radicata una tendenza simile, forse in maniera ancora più marcata (il gioco delle copie non si limita al cinema, bensì si estende sistematicamente anche alla letteratura, ai fumetti ai videogiochi ecc, e in maniera niente affatto unidirezionale). Esiste una sorta di bagaglio comune di temi e storie (spesso risalente a una cultura "classica")... una bacino mitologico a cui tutti sono liberi di attingere copiando, stravolgendo e ispirando a loro volta altri autori. L'abilità dell'autore sta proprio nel COME questi riesce a fornire una visione personale di un materiale noto e familiare a tutti. Non so se da noi esiste qualcosa di simile (specialmente a livello di storie, più che di temi).
RispondiElimina