lunedì 19 aprile 2010

Bigger thah life

E' uscito qualche tempo fa, ma è un film troppo bello, ambizioso, incontenibile, drammatico, appassionante e tutto ciò che vi fa venire in mente la parola massimalismo, per poterlo lasciare fuori. Si chiama Il profeta e l'ha diretto il francese Jacques Audiard: se ne è parlato tanto in questo ultimo anno e tutto ciò che se ne è detto è giusto. Metto qui sotto una recensione che ho scritto per Cineforum. Buona lettura, se vi va.

Il profeta di Jacques Audiard
Quanto cinema può contenere un genere? Quanto mondo può entrare in un film? Maestoso per durata e ambizioni, Il profeta sfida apertamente la propria idea di magniloquenza buttando in campo le leggi (non scritte ma fondamentali) della narrazione cinematografica.

Innanzitutto, lo spazio: un carcere parigino, un luogo concluso, anonimo, una terra di nessuno in cui l’identità nazionale, dispersa nella società globalizzata e per questo impugnata dalle forze politiche come arma d’offesa, recupera il valore di etnia e di appartenenza «tribale» per decretare la sopravvivenza o la sopraffazione di ogni prigioniero. Poi, il tempo: senza fine, come per tutti quelli che finiscono dentro, poco importa se condannati a un anno o a trenta, tempo che rallenta e che accelera, tempo di un’attesa che al momento decisivo può troncare o salvare una vita. Poi un volto, un corpo, un eroe: Malik, interpretato dall’impressionante Tahar Rahim, una statua di impassibilità che si rafforza progressivamente con la conoscenza delle regole del carcere e con la consapevolezza del suo valore senza mutare d’espressione, maschera di rigidità classica su cui proiettare l’identificazione dello spettatore. Infine, il mondo e le sue infinite storie: storie di prigionieri politici corsi diventati col tempo mafiosi, di delinquenti uccisi in una prova di coraggio che appaiono come fantasmi, di compagni di blocco ammalati di cancro, di una vedova e di un bambino da accudire; storie di guerre segrete tra nord-africani e francesi, di lingue sconosciute da imparare per salvarsi la pelle, storie di potere e di controllo, di ambizione e di paura. Storie di uomini, insomma.

Uomini che Audiard, a partire da Malik, non dimentica mai di mettere al centro del suo film, prima dell’impianto narrativo e delle regole del cinema carcerario, oltre la struttura rivelata del genere, mettendo in scena quella che è la scalata al potere di un carcerato furbo e coraggioso, ma soprattutto la storia della sua sopravvivenza, della sua reazione a quella cosa umanissima che è la paura.

È di questo, infatti, che parla Il profeta: di istinto, di un ragazzo che agisce per vincere e non morire, che ragiona freddamente sulle sue scelte rispondendo a un animalesco desiderio di vita. Il genere sopravvive alla sua parabola di caduta e rinascita, perché non ne soverchia mai la centralità e al tempo stesso non rinuncia alle proprie regole, alle proprie derive (il fantasma della prima vittima di Malik, le premonizioni quasi divine, il finale di impronta ironicamente biblica) e inverosimiglianze (tutti quei morti nel centro di Parigi senza che nessuno batta ciglio!). Piuttosto, attraversa sottotraccia una vicenda che ha in Malik il fulcro ma che non smette mai di rigenerarsi, di respirare come un frammento di vita vera.

Malik è lo sguardo privilegiato del racconto, la sua presenza fisica è la fonte di ogni evento, ma nella sua battaglia solitaria per arrivare alla guida dell’istituzione che lo ha rinchiuso è solo uno dei tanti tasselli, il principale, del mondo predisposto da Audiard. Quel mondo che esiste al di fuori dal carcere e che trova spazio non solo nelle uscite temporanee di Malik, ma anche nei volti degli uomini e delle donne intravisti nelle scene del parlatorio, oltre le spalle del protagonista e oltre la durata di ogni scena, grazie all’indugiare della macchina da presa.

C’è un respiro continuo che pervade le immagini e le storie di Il profeta. Audiard gestisce in modo straordinariamente fluido la materia che accumula di tassello in tassello, scegliendo di dividerla in capitoli diversi per importanza e durata, dedicati a ciascun personaggio incontrato in prigione da Malik. Una struttura che, senza temere l’azzardo del paragone, ci ha ricordato quella di Rocco e i suoi fratelli, perché in fondo è proprio il passo del capolavoro massimalista che Audiard ha miracolosamente trovato. Il passo del racconto che tutto abbraccia e tutto comprende in un’ansia soddisfatta di racchiudere la vita dentro il cinema.

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