Sta girando molto in rete un post di Julie Maroh, l'autrice di Le bleu est une couleur chaude, il fumetto da cui è tratto La vie d'Adèle, apparso sul blog Les coeurs exacerbés. La scrittrice racconta la sua reazione di fronte al film di Kechiche, le cose che le sono piaciute e quelle che l'hanno delusa, specie il silenzio della produzione e del regista durante le riprese e la freddezza durante la montée des marches di Cannes. Julie Maroh dimostra grande correttezza nei confronti dell'adattamento cinematografico, non difende gelosamente la sua creatura e ne accetta i parziali o grandi tradimenti, scrive con onestà del proprio lavoro e di quello altrui, rivela l'ammirazione per Kechiche, riconosce che il film è pienamente un'opera del suo regista, scritto e girato secondo la sua idea di mondo, e svela giusto tra le righe il dispiacere per qualcosa che non è ciò che forse si aspettava. E' comunque troppo onesta per prendersela, e anzi scrive (scusate la traduzione a naso): "...mi sentirei veramente stupida a rifiutare qualcosa con il pretesto di trovarla diversa da come me l'ero immaginata". Solo che a un certo Julie Maroh non si tiene e arriva a parlare di ciò che l'ha più delusa, la cosa più evidente del film, ciò che presumibilmente rimarrà nel tempo, il sesso ovviamente, che in La vie d'Adèle si pratica e si vede a piene mani (nel senso letterale dell'espressione) e che per Julie Maroh manca di un elemento fondamentale, vale a dire l'elemento lesbico, o in generale l'elemento omosessuale, siccome né Kechiche né le sue due interpreti sarebbero gay. Secondo l'autrice le scene di sesso di La vie d'Adèle sono (mi scuso ancora per la traduzione) "uno sfoggio brutale e chirurgico, dimostrativo e freddo di sesso cosiddetto lesbico che vira nel porno". Soprattutto, aggiunge, quando nel mezzo della sala tutti cominciano a ridere, gli etero perché trovano le scene ridicole e gli omosessuali o i transgender che non le trovano credibili e dunque pensano pure loro siano ridicole. Chi non ride, sostiene Julie Maroh, probabilmente è un maschio troppo occupato a rifarsi gli occhi di fronte all'incarnazione di uno dei propri fantasmi.
Ecco, qui sta il punto. La questione delle risate e del fantasma. Non tanto per l'impostazione gay del ragionamento dell'autrice (che non commento perché poco esperto di cultura queer), quanto per il fatto che, come per la Maroh in Kechiche manca il lesbismo, nelle sue parole manca una cosa altrettanto decisiva, e cioè il cinema, che poi è la sola ragione che fa di La vie d'Adèle un grande film, e non una semplice storia d'amore. O forse no, La vie d'Adèle è proprio una semplice storia d'amore e nulla più, ma anche per questo, perché capace di portare in superficie il sudore della carne e il liquido del piacere, autentica e universale.
A Cannes, durante la proiezione stampa, seicento e più persone non ridevano affatto, né da etero né da gay (almeno per quello che percepivo attorno a me), e di certo non perché l'atmosfera fosse quella del circolo Pickwick. Nessuno rideva perché in effetti si assisteva, come dice la Maroh, allo svelamento di un fantasma: non però il fantasma dell'orgasmo femminile, di un piacere mistico e superiore a quello dell'uomo, bensì al fantasma del corpo, allo svelamento di una delle chimere del cinema, l'abbattimento della distanza tra l'occhio dello spettatore e la realtà che prende vita sullo schermo, con il set così preparato e riconoscibile da dimenticarsi la porta aperta, pronto a mettere in scena una superficie di emozioni e reazioni che vengono prima della mistica dell'orgasmo e al tempo stesso la superano.
C'è qualcosa di inesplicabile nei corpi delle due donne che fanno l'amore in La vie d'Adèle, qualcosa di artificiale eppure purissimo, qualcosa legato alla loro messinscena, alla loro plastica naturalezza, alla vicinanza della macchina da presa e alla sua trasparenza, senza desiderio ma con voluttà: tutto questo fa di La vie d'Adèle un film sulla vita della carne e sulla resistenza dello spirito, prima ancora che la storia di un amore lesbico. E questo, onestamente, ha poco o nulla a che fare con i fantasmi del sesso, dell'altro, del desiderio (Kechine non è Hitchcock), e molto con la capacità del cinema di lasciar parlare i corpi, di mostrarli e non abbandonarli sulla scena, senza forzarli a esprimere qualcosa che sta già nell'occhio dello spettatore. Per me è una questione di stupore, non di desiderio o piacere.
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