sabato 28 gennaio 2012
L'arte di rinunciare
Ieri è uscito L'arte di vincere, il film sul baseball che lo scorso novembre aveva aperto il Torino Film Festival interpretato da Brad Pitt e co-sceneggiato da Aron Sorkin. Un film sorprendente che parla non tanto del baseball, quanto della sua filosofia: e dunque può piacere anche a chi, come me, del baseball non ha mai capito niente. Perché L'arte di vincere parla di rivoluzioni, di sconfitte che fanno cambiare, di battaglie perse e di guerre vinte; essendo poi realizzato in tempi di crisi, rilegge il sogno americano in chiave rinunciataria, un po' come il recente Monsters stravolge il mito familiare in forma di negazione: "Non voglio tornare a casa", è l'ultima, clamorosa battuta della protagonista femminile del film. La cosa bella di L'arte di vincere è che anche un profano comincia a capire perché gli americani siano così legati al baseball, ché forse nemmeno loro capiscono bene cosa succeda sul diamante ma in qualche modo riscattano le sue pause e i suoi numeri, le sue azioni senza significato e i suoi gesti scaramantici, con una dose massiccia di romanticismo, o meglio ancora - essendo americani - con un umanesimo da uomo della strada. La sequenza di repertorio con il tizio goffo che cade rovinosamente senza accorgersi di aver fatto un fuori campo, sarà anche fatta apposta per commuovere, ma fa veramente venire i lacrimoni. Se la mettiamo così, allora è vero che il baseball è come un grande romanzo. Come per noi un racconto di Soriano sul calcio o un articolo di Brera. Di quella retorica lì, con l'elogio dei difensori rocciosi o dei portieri con la brillantina, potremmo anche essere stanchi: ma del baseball, proprio ora che abbiamo cominciato a capirci qualcosa, ancora no.
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