venerdì 20 gennaio 2012

Blasfemia senza peccato


Dunque oggi esce Sette opere di misericordia di Gianluca e Massimiliano De Serio: l'invito, come dicevo l'altro giorno, è di andarlo a vedere. E pure, se avete voglia e tempo, di non perdervi l'apparizione dei due alle Invasioni barbariche di questa sera. Per quel che mi riguarda, nel prossimo numero di Cineforum uscirà un mio pezzo sul film, di cui anticipo qui alcuni passaggi. Giusto perché non ho voglia di mettermi a scrivere altro.

C'è qualcosa che sfugge al controllo quasi totale che Gianluca e Massimiliano De Serio esercitano sul loro primo film di finzione. Ed è fatto della stessa sostanza che ravvivava i loro lavori precedenti, mai del tutto documentari, mai esplicitamente narrativi, eppure così vicini alla finzione da essere paradossalmente frammenti di vita vera. Ciò che i De Serio non controllano è la sostanza che rende il cinema un’arte talvolta pulsante e autentica, la realtà che nel momento dell’incontro con la macchina da presa lascia lo sguardo abbagliato e offre allo spettatore un attimo privilegiato di sospensione ed emozione.

[...] La forza di Sette opere di misericordia sta nella sua natura sofferta, nell’evidente travaglio creativo con cui i De Serio arrivano a delineare i personaggi, a liberarli dopo averli imprigionati, a farli rinascere dopo averli messi in contatto con la morte. Il percorso simbolico è di chiara matrice cristiana, ma il film differisce continuamente la sua stessa impostazione. Ogni riferimento all’iconografia religiosa è affermato e insieme superato, come il frutto di una naturale e inevitabile secolarizzazione dell’immagine (o forse di una blasfemia senza peccato). La sacra famiglia rappresentata è sbagliata, il bambino è rubato, la finta madre è una ladra, il finto padre è un truffatore: eppure, Antonio, Luminiţa e il neonato rappresentano l’immagine autentica di un mondo distorto, sono i reietti attraverso i quali, oggi, può ancora esprimersi una possibile lingua del divino.

In questa prospettiva, i rimandi al Caravaggio nel titolo e in molte scelte figurative sono ugualmente affermati e rivisti: il momento di vita quotidiana in cui Luminiţa calma il neonato con un palla luminosa, rimanda sì al ribaltamento figurativo della pittura barocca, dove è il buio a caricarsi della forza rivelatrice della luce, ma al tempo stesso, grazie a un oggetto di paccottiglia kitsch, dona verità all’impossibile rapporto tra una madre che non c’è e un figlio che non le appartiene. I De Serio creano diamanti dal fango, e per quanto un po’ se ne compiacciano il loro gesto cinematografico resta rivelatore.

Allo stesso modo, con un procedimento che dal fasullo conduce al vero, Luminiţa non compra la sua nuova identità dall’impiegato dell’obitorio [...], ma la impara dalle mani rachitiche del suo prigioniero, un misterioso angelo caduto che da un certo punto in poi, da quando cioè il racconto si libera in mille rivoli dispersi, guida da distante il suo destino. La relazione tra Antonio e Luminiţa ricorda quella che tra i personaggi di Jean-Louis Trintignant e Irene Jacob in Tre colori - Film rosso di Kieslowski, con l’anziano giudice che aveva già vissuto la vita della giovane modella e in qualche modo interveniva sul corso degli eventi per riscattarla.

[...] L’ironia del finto rapporto tra l’anziano signore italiano e la badante rumena è evidente, ma nello scambio di competenze tra l’uomo e la donna c’è qualcosa di più: c’è la messa in discussione di un’iconografia scontata, sia quella altissima del Caravaggio sia quella infima dello stereotipo culturale. Lontani da un intento iconoclasta, i De Serio affidano al loro film il compito di svincolarsi dai propri modelli positivi e negativi per liberare prima di tutto il cinema e la vita che sa cogliere. Il loro è un cinema umanista che osserva la nascita della verità, oltre il sacro, oltre la finzione, oltre l’immagine.

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