giovedì 19 maggio 2011
Cannes 64 - Lo spazio bianco
La piel que abito, che è un film un po’ bloccato, un giallo senza forza con una trama come al solito avviluppata su stessa, con le scritte SEI ANNI FA, DUE MESI DOPO, RITORNO AL PRESENTE belle grosse e contornate di bianco, è a mio modo di vedere il lavoro in cui Almodóvar ha più saputo andare a fondo delle sue ossessioni sul corpo e sulla sessualità come possessione. Come sempre succede in un cinema dove ogni personaggio non è mai ciò che crede di essere e infinte madri di infiniti figli vivono relazioni di inconsapevole prossimità, si tratta di una storia di appropriazione dell’identità altrui, di manipolazione e di desideri egotici: questa volta, però, letteralmente tagliata sulla pelle dei protagonisti, guidata da un chirurgo folle e visionario che non a caso è un personaggio superficiale, il cui dolore viene solo mostrato e mai approfondito, in quanto capace solamente di vivere attraverso gli altri. O meglio, attraverso il corpo degli altri, da guardare, vegliare, ricostruire, sovrapporre. L’ossessione necrofila di tutto il cinema di Almodóvar, che in Parla con me toccava vette sublimi, qui si contamina con la tentazione della mutazione corporea, della possessione fisica come desiderio solipsistico e soprattutto dimostra quanto per il regista spagnolo il cinema sia in fondo una battaglia rivolta contro se stessi, contro il proprio potere di costruire personaggi, di giocare con la loro psiche e il loro corpo. Almodóvar però – e purtroppo – non è Cronenberg e quando il suo film potrebbe sfociare nell’orrore, naturalmente vira verso il melodramma familiare, con i soliti incroci di sangue e vendette e pure con meno convinzione del solito, meno estro nello stile e un po’ di impaccio nelle scene d’azione e in quelle venate d’ironia. Ne viene fuori un film sbagliato ma proprio per questo affascinante; una pagina così colma di notazioni, fobie, derive autoriali da diventare uno spazio bianco su cui magari ricominciare a scrivere.
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