Oggi esce The Fighter, il film di David O'Russell sulla vera storia del pugile Micky Ward, sull'inizio della carriera nei pesi welter e soprattutto sul rapporto di amore e odio con il fratellastro Dicky Eklund. Un film su uomo problematico dalla vicenda produttiva altrettanto travagliata, come se a Hollywood lo facessero apposta a realizzare ciclicamente opere maledette, con mille fasi di riscrittura, gossip vari e continui cambi di attori e registi (Brad Pitt al posto di Mark Whalberg e O'Russell che a un certo punto prende il posto di Aronofsky). Il risultato, come sovente in questi casi, è un film per molti versi sbagliato e assolutorio, ma al tempo stesso pieno di vitalità e rabbia, che filma la provincia operaia del Massachussets come anni fa Il cacciatore la Pennsylvania dei minatori, come un mondo cioè invisibile e invincibile, che alla maniera del Fincher di Zodiac piega il digitale al mood estetico dell'archivio visivo anni '70, che denigra il mito della sconfitta eroica del personaggio maledetto e in quello altrettanto melodrammatico della famiglia soffocante vede un mostro tentacolare al quale si tende naturalmente.
La storia è vera, come dicevo, ma come al solito è piegata alle esigenze morali del cinema di genere: tutto si compone e si chiude con l'agnizione finale, per quanto la regia di O'Russell, indistinguibile da quella che avrebbe usato Aronofsky (che declinò per seguire un progetto simile, ma più estremo: The Wrestler), cerchi continuamente degli strappi visivi che mettano in crisi il classico percorso di redenzione dell'uomo della strada.
Il cinema indie reintregato dall'industria oggi è questa roba qua: per alcuni momenti di grande cinema baratta i passaggi chiave della storia che fanno tornare ogni cosa, lasciando alla grana sporca dell'immagine e alla capacità del digitale di assumere su di sé i sedimenti del tempo - le ferite visibili e invisibili dei personaggi - il compito di dare quella sferzata che dalla trama, non essendo The Fighter Million Dollar Baby, non può arrivare.
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