Dopo più di un anno da Cannes 2009, esce oggi nelle sale Il tempo che ci rimane, grande film del palestinese Elia Suleiman. Ambizioso e implacabile sguardo su un conflitto, quello della sua terra, che non smette mai di essere d'attualità. La forma immobile, muta, da teatro dell'assurdo, di Suleiman ne svuota però ogni elemento contingente, ogni aggancio con la cronaca, e la conduce nel territorio dell'assoluto: dove ogni cosa ha un suo senso ma anche no, dove un carro armato dialoga con un telefonino, dei soldati combattono contro la musica da discoteca e dove l'unione degli opposti ricrea la realtà e puoi ridere o piangere delle stesse cose.
A dare forma e valore a tutto, il volto da Buster Keaton di Suleiman, che questa volta è meno incisivo rispetto al suo capolavoro, Intervento divino, ma forse perché ci mette dentro se stesso, la storia della sua famiglia, il legame privato e pubblico con la tragedia di un popolo.
Si potrebbe pensare che i distributori siano stati astuti o fortunati a far uscire un film come questo in giorni come questi: ma nel caso della guerra tra palestinesi e israeliani il momento è sempre quello propizio. La realtà sorpassa sempre la finzione, a meno che non la si congeli con lo sguardo impassibile e senza fondo di Suleiman.
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