domenica 9 maggio 2010

La resistenza che verrà

Venerdì hanno consegnato i David di Donatello: per il miglior film ha vinto L'uomo che verrà di Giorgio Diritti, per la regia Bellocchio con Vincere. Gli altri della cinquina erano Baarìa, Mine vaganti e La prima cosa bella: per una volta ce l'hanno fatta i migliori. Diritti perché fa un cinema morale, anche se un po' vecchiotto (troppo alla Bresson, per intenderci), e Bellocchio perché è ancora quel meraviglioso incazzoso che è sempre stato, che se la piglia con le suore e il fascismo e si vede da mille chilometri che la cosa lo metta di buon umore. Il fatto che abbiano vinto fa bene alla resistenza contro la spaventosa mediocrità degli altri tre.

L'attenuante ce l'ha solo Virzì, perché il suo film ha almeno un momento in cui si ride e uno in cui viene da piangere. Per il resto, solo nostalgia per la commedia all'italiana (ancora!) o per l’epica alla Blasetti e superficialità per il fallimento di ogni probabile aggancio con la realtà.

Se L’uomo che verrà colpisce per l’approccio distante alla tragedia, per lo sguardo attonito sull'orrore, e il coinvolgimento di Bellocchio è la rabbia di un grande intellettuale, per il resto il cinema italiano è un rifugio, un volgere lo sguardo altrove, sperando di potersela cavare con storie individuali nel solco dei grandi eventi (Baarìa) o con ridicole rivendicazioni di diversità (Mine vaganti). Non di è questo che ha bisogno, bensì di uno sguardo che lo aiuti a riconciliarsi con la Storia e a uscire dalle secche del privato.

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